Dieci mesi al governo, insieme, PD e 5 Stelle si confrontano e, soprattutto, si scontrano come se uno dei due fosse all’opposizione, oppure entrambi in piena campagna elettorale, all’alba delle elezioni politiche, quasi incuranti del loro alleato Liberi e Uguali che, assicurando importanti voti al Senato, sta dimostrando responsabilità e coerenza attraverso i suoi esponenti migliori, dal Ministro della Salute Roberto Speranza (Articolo Uno) a Nicola Fratoianni (portavoce di Sinistra Italiana), a Loredana De Petris (Presidente del Gruppo Misto).
La classe politica oggi è piuttosto modesta. I politici che risultano credibili per la loro storia, coerenza e reputazione sono pochi e fra questi mi piace comprendere gli esponenti LEU citati, che meriterebbero maggiore considerazione e rispetto, in primis, proprio da parte degli alleati di governo.
Ma fermiamoci sull’attività di governo e sul rapporto equivoco PD-5 Stelle. Sembra il menage di due anziani coniugi, sposati da una sessantina d’anni, che si pizzicano e si criticano, continuando ad agire ciascuno a modo proprio, uno incurante dell’opinione dell’altro, senza tuttavia riuscire a farne a meno, tenendosi aggrappati vicendevolmente e sostenendosi nel procedere vitale, consci che l’alternativa della separazione significherebbe lo spegnersi inevitabilmente.
Sugli enunciati di principio, in riferimento ai grandi temi delle riforme, sembrerebbero andare d’accordo. Chi può negare che PD e 5 Stelle siano contrari a una riforma della magistratura, del codice degli appalti, oppure a un rilancio degli investimenti in opere pubbliche?
Di fatto, poi, sono contrari su tutto.
Il PD è favorevole all’uso del MES da 38 milioni di euro, mentre i 5 Stelle hanno fatto bandiera della loro opposizione all’utilizzo.
Il PD è favorevole a un sostanziale mantenimento del codice degli appalti, attraverso qualche limitata deroga con l’affidamento diretto nel caso di opere sotto la soglia dei 150 mila euro, mentre i 5 Stelle vorrebbero cassare del tutto il codice degli appalti per dar vita a un “modello Genova” diffuso su tutte le opere.
I 5 Stelle propongono un condono edilizio, attesa la straordinarietà del momento e dei conseguenti provvedimenti da assumere, mentre il PD è assolutamente contrario a ogni forma di intervento spot, non strutturale, cioè a condoni fiscali, o edilizi che siano.
I 5 Stelle sono favorevoli alla nomina dei supercommissari alle grandi opere pubbliche, mentre il PD è contrario e si trincera dietro al codice degli appalti. D’altronde, come volergliene, visto che proprio questo testo, giuridicamente titolato codice dei contratti pubblici, è stato emanato con il D.Lgs. n. 50 del 18 aprile 2016, Presidente del Consiglio Matteo Renzi e Ministro delle Infrastrutture Graziano Del Rio!
Anche l’abolizione del reato di abuso d’ufficio per snellire la burocrazia è motivo di scontro fra PD e 5 Stelle, come la riforma della magistratura, la nomina dei componenti il CSM e l’istituto della prescrizione novellato ed in vigore dal 1 gennaio 2020.
Ragionando a contrariis, verrebbe, dunque, da chiedersi cosa hanno in comune, in cosa vanno d’accordo, quale programma condividono PD e 5 Stelle per stare insieme al governo? A mio avviso la risposta non può che essere una sola: poco o niente. Tuttavia è in quel poco, direi addirittura in un unicum, che si rinviene la ratio dell’alleanza, che consente la sopravvivenza del e nel governo: mai Salvini alla guida del Paese!
Questo governo “salvifico” è nato proprio e solo per evitare le elezioni politiche che, stando ai sondaggi dell’epoca, avrebbero determinato una vittoria schiacciante della Lega e del centrodestra, il tutto con l’imprimatur, cioè molto più dell’appoggio, da parte dell’UE e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non dimentichiamolo mai, di provenienza PD.
Da qui discende un inevitabile corollario: quest’alleanza “contro” di PD e 5 Stelle porterà necessariamente ad una loro convergenza verso un sistema di voto molto probabilmente proporzionale con aliquota di sbarramento, proprio per consentire all’attuale maggioranza di governo di sopravvivere, con buona pace del sistema maggioritario a suo tempo tanto voluto dalla sinistra italiana. Ma la coerenza in politica, lo abbiamo già detto, è merce rara!
Gli attuali, oscillanti cali di consenso per questi due partiti, più o meno recentemente stabilizzatisi, sono tuttavia bilanciati dai consensi diffusi in capo al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, appena reduce dalla campagna di Bruxelles, tornato vincitore con un bottino di 209 milioni di euro per l’Italia.
In realtà Conte sa che non può contare su una propria forza politica e la nascita di un suo eventuale partito richiederebbe tempi lunghi e risorse finanziarie importanti col rischio fondato che, presentandosi alle elezioni politiche autonomamente, potrebbe non superare quel 5% di voti, quale probabile misura minima per entrare in Parlamento.
Quindi Giuseppe Conte centralizza, esautora il Parlamento ed ha tutto l’interesse a galleggiare ancora per i prossimi dodici mesi, finché non si arriverà al semestre bianco, che inizia il 4 agosto 2021 (il mandato presidenziale scade a febbraio 2022) e le Camere non potranno più essere sciolte. A quel punto il voto politico non potrà che esserci solo nel 2022, peraltro dopo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Ed è così che Conte guadagna tempo, nominando commissioni di tecnici a pioggia per poi archiviare il rapporto Colao, organizzando la kermesse degli Stati Generali, varando provvedimenti da centinaia di articoli, ma sempre nel presupposto del “salvo intese” come nei decreti Dignità, Rilancio, Semplificazione, Cura Italia, procrastinando gli aiuti economici, annunciando opere straordinarie come il Ponte sullo Stretto, una riforma organica del fisco come mai avvenuta in passato, ammiccando al centrodestra, prima, per un eventuale governissimo e poi solo a Forza Italia, quale potenziale quarta gamba di un governo traballante. A tutto ciò si aggiungano due appuntamenti importanti a settembre: le elezioni regionali e il referendum sul taglio dei parlamentari.
Morale della favola, ognuno di questi tre attori (PD, 5 Stelle e Conte), ma aggiungerei anche Italia Viva, i cui sondaggi danno al di sotto del 3%, con le loro debolezze e limiti, giocano una partita propria, che ha tuttavia il denominatore comune della “resistenza comunque”, quale collante fondamentale che li salda per arrivare a fine legislatura.
Gli italiani si mettano l’animo in pace. Con questi presupposti e gli ultimi sondaggi che danno il centrodestra in spolvero, il diritto di voto per l’elezione del Parlamento potrà essere esercitato solo nel 2022, sempreché si abbia ancora la voglia, l’entusiasmo, o la responsabilità di recarsi alle urne.