L’impopolarità degli apparati amministrativi

L’occasione di questo intervento trae origine da un lucido articolo di Claudio Zucchelli (Burocrazia e rilancio, la parola d’ordine è liberalizzare, in Formiche, n. 5, 2020) nel quale si racconta come la crisi economica nata dalla pandemia renda assolutamente indifferibile l’eliminazione dei “costi amministrativi” che ognuno di noi paga in conseguenza dell’inefficienza della burocrazia, il cui peso tende costantemente ad aumentare rendendo, fra l’altro, sempre meno appetibili le occasioni di investimento che dovrebbero essere il principale motore di rilancio per l’economia italiana.

Impietosa è la conclusione cui quell’autore – prima Giudice amministrativo e oggi amministratore locale – arriva: “La questione centrale, quindi, non è eliminare o semplificare i passaggi burocratici, ma non creare le condizioni per cui avere bisogno della burocrazia”. Difficile dargli torto, almeno da un punto di vista strettamente razionale; ancor più difficile però accettare le conseguenze – disastrose – di quella analisi.

Perché se è vero che, di questo passo, siamo giunti a trovarci di fronte un sistema amministrativo che vessa progressivamente i propri amministrati, anziché servirli, è altrettanto vero che – con una simile “macchina dell’obbedienza” – il nostro Paese non ha praticamente scampo, soprattutto in considerazione della circostanza che l’essere parte di una unione sovranazionale cui sono state cedute pesanti quote di sovranità ci pone nella condizione di subire la concorrenza di altri Stati membri che utilizzano i loro apparati amministrativi per rendere più appetibili gli investimenti nei luoghi che quegli apparati governano.

Dobbiamo però domandarci se il costante richiamo alla mancata efficacia ed efficienza della burocrazia debba, anche solo implicitamente, essere considerato come unica possibile critica ai comportamenti di quest’ultima, nel momento in cui impone ubbidienza agli amministrati, oppure se gran parte delle colpe che le vengono attribuite siano da ricercare innanzitutto fuori da ciascun apparato.

Emblematica – da questo punto di vista – è la vicenda dell’Autorità Anticorruzione, la cui attività ha comportato un forte rallentamento nell’acquisizione di lavori, forniture e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni: è un caso oggi all’attenzione di tutti gli studiosi, alcuni dei quali hanno segnalato il paradosso secondo cui gli eccessi di procedimentalizzazione dei sistemi di scelta del contraente hanno fatto sì che l’amministrazione nel suo complesso possa essere addirittura vista come un mostriciattolo che divora se stesso.

In realtà quell’Autorità ha ben poche colpe per quello che è avvenuto, perché la Legge che l’ha istituita e gli strumenti che contestualmente Le ha fornito per agire erano largamente inadatti, salvo giustificarne l’uso richiamando impropriamente l’obbligo di applicazione delle direttive comunitarie che disciplinano la materia degli appalti pubblici onde impedire, per un verso, che gli affidamenti non tengano conto del principio secondo cui gli imprenditori interessati operano nello spazio unico europeo e, per altro verso, che gli affidamenti stessi si risolvano in aiuti di Stato a questa o quell’impresa nazionale che beneficerà di quegli aiuti con modalità tali da sfalsare  la concorrenza secondo il modello disegnato dai Trattati istitutivi dell’Unione Europea.

La verità è che il legislatore ha voluto – con una scelta difficilmente condivisibile – andare a pescare dentro l’allora Autorità dei Contratti Pubblici l’apparato necessario a far funzionare l’Autorità Anticorruzione che ne era invece priva.

Si è così proceduto, su proposta del Governo, ad unificare le due Autorità e si è affermato che, in tal modo, il fenomeno della corruzione, largamente presente nel settore degli appalti, sarebbe stato più agevolmente combattuto: i fatti successivi però hanno dimostrato come l’obiettivo che si auspicava non sia stato assolutamente raggiunto, o perlomeno che il costo di quella riforma non è stato compensato dai benefici che se ne sono ricavati.

Non meno emblematica – per dimostrare come spesso le critiche agli apparati non dipendano principalmente dal loro modo di operare, quanto piuttosto dai vizi genetici che li affliggono –  è la vicenda dell’approntamento degli strumenti emergenziali afferenti la pandemia tuttora in atto.

Basti, per tutti, ricordare che il legislatore aveva talmente poca fiducia nell’apparato costituito dal plesso organizzativo Protezione civile-Comitato tecnico scientifico che ha stabilito di sottrarne provvedimenti al diritto di accesso agli atti e i documenti che rappresenta ormai, per chi ne riceva pregiudizio, il punto di partenza di ogni ricorso finalizzato a far cessare comportamenti amministrativi idonei ad infliggere un danno risarcibile a chi ne subisce le conseguenze.

Potremmo stilare lungo elenco degli errori compiuti nel corso della lotta alla pandemia, ma forse non è opportuno; basti però citare la rapida successione dei moduli contenenti le autodichiarazioni che ciascuno di noi ha dovuto recare con sé nell’uscire di casa per dimostrare come spesso fra leggi, atti con forza di legge, provvedimenti amministrativi generali e sanzioni irrogate dall’apparato preposto al controllo si siano creati vincoli inestricabili all’interno dei quali era ben difficile all’ignaro cittadino comprendere se la colpa della sanzione irrogatagli fosse da attribuire – e in che misura – al Parlamento, al Governo, agli apparati di quest’ultimo o al verbalizzante che aveva erroneamente interpretato le prescrizioni di servizio in base alle quali irrogare la multa a chi stava (forse) contravvenendo ad un ordine dell’Autorità; anche Quest’ultima appariva talvolta di difficile individuazione, perché poteva essere il Ministro dell’interno, il governo regionale o il sindaco nell’esercizio dei propri poteri di contingibilità ed urgenza.

Risultato: decine di migliaia di multe cui faranno seguito, nei termini non ancora scaduti, una valanga di ricorsi dei quali il già disastrato apparato giudiziario potrebbe far volentieri a meno: ma tant’è.

Sarebbe fin troppo facile, a questo punto convenire con quelli che ritengono la semplificazione amministrativa come la parola d’ordine per rimediare a tutto questo, ma a mio avviso la possibile soluzione del problema è ancora a monte e si trova nella sottoscrizione di un nuovo patto costituente che ponga le libertà fondamentali indicate nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo come base per avviare un diverso disegno dei poteri pubblici, di cui gli apparati amministrativi sono semplicemente il punto di affioramento.

La coalizione politica che comprenderà la necessità e l’importanza di proporre tale patto come base del suo programma elettorale potrebbe avere, alle prossime elezioni politiche, un successo sorprendente.

Federico Tedeschini

Avvocato, docente di Diritto amministrativo, Università La Sapienza di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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