Ringrazio il direttore per l’opportunità che mi offre di uno spazio autorevole per alcune riflessioni sull’andamento della giustizia contabile e sulla giustizia in generale, che non mi è stato possibile sviluppare adeguatamente nella Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Lazio, che ho l’onore e l’onere di presiedere, causa le note restrizioni legate alla pandemia, che hanno necessariamente mortificato la pubblicità dell’evento.
L’annuale Cerimonia, oltre a segnare il tradizionale avvio dell’attività della Sezione, è l’occasione per un momento di riflessione sull’andamento della giustizia contabile nell’anno appena trascorso e sulle sue prospettive per l’anno giudiziario in corso. Essa è anche l’occasione per evidenziare, innanzi alle più alte cariche della Regione Lazio e della Capitale, il ruolo di garanzia attribuito alla Corte dei conti dalla Costituzione (artt. 100 e 103), posto a tutela della legalità e del buon andamento della Pubblica amministrazione, nonché a presidio del pubblico erario e della buona amministrazione.
Le funzioni della Corte dei conti, e della Sezione giurisdizionale del Lazio in particolare, sono assai delicate perché possono coinvolgere, in taluni casi, le scelte operate dagli amministratori sulla base di valutazioni di ordine prevalentemente politico, anche se chi scrive sente di potere serenamente assicurare che lo sforzo di tutti i magistrati della Sezione è stato sempre finalizzato ad assicurare, oltre che una doverosa professionalità, assoluta neutralità e trasparenza, nella consapevolezza che le funzioni esercitate sono volte non già a salvaguardare gli interessi di questo o quel Governo locale, regionale o centrale, ma, nello spirito della nostra carta costituzionale, la corretta gestione delle risorse pubbliche.
Oggi la nostra società è permeata da un giustizialismo alimentato da una sorta di voglia di vendetta, di odio sociale, che rischia di affermarsi come fine ultimo della giustizia e che sta offuscando quei sacri principi di diritto scritti a caratteri cubitali nella nostra carta costituzionale, che non a caso si pone, per questa parte, fra le carte più avanzate del mondo.
Sembrano essersi smarriti quei principi basilari della nostra cultura giuridica, quali la presunzione di non colpevolezza, il principio secondo cui l’onere della prova incombe su chi accusa e non viceversa, il diritto del cittadino ad una giustizia rapida, efficiente e soprattutto giusta.
Noi giudici dobbiamo impegnarci a che non si affermi questa concezione distorta del diritto e della giustizia per riaffermare la cultura delle garanzie, la tutela di quei diritti del cittadino che i nostri padri costituenti hanno voluto scrivere con tanta chiarezza nella nostra Costituzione e che ci hanno fatto innamorare del diritto e di questa nobile e delicata funzione.
Come aveva detto nello scorso mese di febbraio il Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, in una intervista ad un noto quotidiano, mai come oggi occorre impegnarsi per la riaffermazione di una giustizia giusta, una giustizia dal volto umano, che sia riconciliazione e non vendetta.
Nell’esercizio della funzione giurisdizionale il giudice deve essere interprete dei principi del giusto processo, e sforzarsi di declinare gli stessi assicurando l’assoluta parità tra le parti, la terzietà e l’imparzialità, la ragionevole durata del processo. Il giudice non solo deve essere terzo ed imparziale, ma deve anche apparire tale, perché mai deve far venire meno nel cittadino la fiducia nella giustizia.
Un processo giusto, poi, va declinato ed integrato con il diritto del cittadino ad essere giudicato da un giudice sereno, equilibrato, che ispira fiducia e che non abbia altra finalità nell’esercizio della sua funzione che quella dell’accertamento della verità e della giustizia. E soprattutto che abbia consapevolezza del fatto che per il convenuto già l’essere sottoposto ad un processo costituisce di per sé una pena. Come diceva il Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, nell’intervista sopra ricordata, “un giudizio troppo lungo diventa un anticipo di pena, anche se l’imputato, o il convenuto nel caso del nostro giudizio, non è ancora stato condannato”. Ciò tanto più se già il solo fatto di essere sottoposti ad un processo viene sbandierato in maniera strumentale, attraverso una informazione distorta, sui mezzi di informazione e sui social networks. Di qui l’impegno a rendere una giustizia rapida, efficace, serena, che rassicuri e che ispiri fiducia, che sappia conciliare il diritto dello Stato ad affermare il proprio potere – nel nostro caso a perseguire il danno erariale – con i diritti e con le garanzie del cittadino.
L’esercizio della funzione giurisdizionale deve tendere solo all’accertamento della verità e alla affermazione della giustizia. E soprattutto, essa, al pari di ogni altra funzione, non deve mai diventare “potere”. Molti ritengono che l’esercizio della nostra funzione rappresenti un potere, ma non è così. Il corretto esercizio della funzione è neutro, la funzione è neutra. Essa diventa “potere” quando se ne abusa e la si deforma, quando la si indirizza a fini diversi da quelli previsti dalla Costituzione e dalla legge.
Ciò posto, non vorrei, tuttavia, sottacere quanto sia difficile giudicare. Basti ricordare il travaglio e la responsabilità di giudicare descritti da un giudice, Dante Troisi, che ormai qualche decennio fa, proprio dalle mie parti, a Cassino, fu magistrato, e che ha magistralmente descritto nel suo “Diario di un giudice” il tormento del giudicare.
Nondimeno il giudicare deve diventare “mestiere”, abitudine, fredda applicazione della legge, come se il giudice fosse un computer: il giudice è sì soggetto solo alla legge, ma deve essere umano, si deve sempre, e ogni volta, far carico del caso specifico e del fatto che la questione su cui è chiamato a giudicare, anche se per lui è abitudinaria, assume per l’imputato, o per le parti nel giudizio civile, o per il convenuto nel giudizio innanzi alla Corte dei conti, una valenza e una importanza vitale. Egli deve sforzarsi con la sua coscienza, con il suo equilibrio, con la sua saggezza, di far coincidere la legge con la giustizia. E non deve dimenticare che dietro le carte di un processo, dietro ad un fascicolo, ci sono persone – e famiglie – che soffrono “la pena del processo”, soprattutto se innocenti. Per questo non deve mai considerarsi estraneo al tormento di colui che è chiamato a giudicare, e giammai deve porsi nei suoi confronti con la presunzione del sapere, con la certezza di chi si ritiene depositario del giusto e del vero, con il compiacimento del potere. Deve piuttosto accostarsi con umiltà alle responsabilità del suo servizio, consapevole che ogni suo giudizio, anche il più convinto e meditato, è solo un tentativo di accertare una verità che resta pur sempre, ed in ogni caso, relativa.
Chi scrive e i giudici della Sezione giurisdizionale del Lazio della Corte dei conti si sono sempre sforzati, e continueranno a farlo, di interpretare e di svolgere la propria funzione e il proprio ruolo in osservanza di questi valori e di questi principi. Per questo sento di poter dire che gli amministratori e i dipendenti pubblici e, più in generale, le amministrazioni pubbliche non devono guardare alla Corte dei conti, nelle sue diverse funzioni, con timore o con diffidenza, ma con piena e incondizionata fiducia, perché la buona amministrazione, la buona politica, gli amministratori che non hanno nulla da nascondere non hanno nulla da temere dalla Corte dei conti.