L’ONU, un’istituzione da riformare

Il mondo è sempre più interconnesso. Come in un etereogeneo composto chimico, particelle del sistema politico, economico, sociale e scientifico agiscono l’una sull’altra con conseguenti modificazioni reciproche del loro stato, spesso non previste. Nell’odierno contesto internazionale, la velocità di espansione di tali dinamiche connettive è molto superiore alla capacità dell’uomo di trasformarle in relazioni funzionali.

Paradossalmente, nell’ultimo decennio, siamo stati eminentemente efficaci nell’indebolire proprio quegli organi preposti a regolare lo sviluppo inordinato della globalizzazione. Ovvero, le istituzioni del sistema multilaterale. Tali istituzioni furono create all’indomani della seconda guerra mondiale, quando l’uomo, attonito e traumatizzato dalla propria capacità di produrre mali immensi, riconobbe i limiti dei governi nazionali lasciati preda di tentazioni deumanizzanti. Il motivo fondamentale della nascita dell’ONU, fu molto specifico: evitare il rischio di un nuovo conflitto internazionale. Una terza guerra mondiale, termonucleare, avrebbe semplicemente determinato l’estinzione della razza umana.

Con il tempo le Nazioni Unite hanno assunto una funzione più complessa. La sua struttura però non si è evoluta in modo proporzionale alle metamorfosi del contesto internazionale. Il suo ruolo oggi – più importante che mai – sembra scivolare lentamente verso l’irrivelanza. Perché?

La discussione internazionale sulla riforma del sistema delle Nazioni Unite non è certo un fenomeno recente: infatti comincia all’indomani della nascita della organizzazione. I negoziati che precedettero la fondazione dell’ONU furono travagliati e subito dopo la ratificazione dell’accordo, iniziò un lungo processo di arbitraggio sull’implementazione della carta dell’ONU e sui mandati delle organizzazioni preposte alla gestione dei progetti. I paesi fondatori dell’ONU (nel 1945 erano 50, oggi sono 193) erano separati da ideologie talvolta opposte e le visioni politiche e culturali erano molto eterogenee.

Il tema della riforma del sistema dell’ONU non è quindi la distinzione di un particolare periodo storico, né l’iniziativa di uno specifico Segretario-Generale dell’ONU. Piuttosto, è una molecola costitutiva del DNA dell’organizzazione. In aggiunta, l’ONU da quando fu fondata, ha dovuto costantemente adattarsi alle evoluzioni del sistema di governo globale. Basti pensare a quanto il mondo del 1945 sia diverso dal mondo di oggi.

Eppure, il Consiglio di Sicurezza (l’organo centrale dell’ONU) è identico a come fu creato 75 anni fa. Il Consiglio è una struttura che riflette un’epoca ed un contesto internazionale, dove tutti gli stati membri sono uguali ma cinque sono più uguali degli altri. Questi sono gli stati detentori del potere permanente: USA, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia. Tale configurazione è oggi obsoleta ed indebolisce la credibilità della organizzazione. Il Consiglio deve essere urgentemente rifondato, su basi che riflettano il mondo di oggi e non quello del 1945.

Negli anni cinquanta nacquero le operazioni di Peace-keeping. Furono create principalmente per volontà dell’allora Segretario-Generale, Dag Hammarskjold, per un proposito molto specifico (il mantenimento della pace a seguito della guerra del Sinai) ma si sono da allora evolute in una entità completamente diversa. Oggi un nuovo dipartimento combinato, di affari politici e peace-keeping, è coinvolto nei più diversi contesti, da conflitti tra stati a crisi intra-stati, da fenomeni di terrorismo al crimine finanziario e molto altro.

L’ufficio per gli Affari Umanitari (OCHA, Office for Coordination of Humanitarian Affairs) fu inizialmente concepito per assistere coloro che erano stati costretti ad abbandonare le loro residenze a causa di disastri creati dall’uomo (guerre), o dalla natura (terremoti, inondazioni, siccità, etc). Da allora l’ufficio è cresciuto a dismisura in un colosso che gestisce miliardi di dollari all’anno, in varie mergenze complesse di quattro continenti.

I diritti umani per molti anni hanno costituito all’ONU principalmente una aspirazione etica. Le organizzazioni dell’ONU che si occupano di tale settore, oggi sorvegliano la protezione dei diritti nella vita pubblica. In aggiunta, da qualche anno partecipano ad attività di sviluppo. Per esempio, progetti di rafforzamento istituzionale per assistere (tecnicamente e legislativamente) gli stati membri ad onorare le prorie responsabilità di rispetto dei diritti umani di ogni cittadino, così come iscritte nella carta delle Nazioni Unite.

Le attività di sviluppo sono probabilmente una delle aree di riforma più discusse, in un sistema ONU frammentato in decine di agenzie, fondi e programmi, ciascuno dedicato ad un differente settore di sviluppo.

Che cosa impedisce il riesame di una istituzione (meglio, una costellazione di istitutzioni), della quale nessuno oggi ufficialmente disputa l’urgente necessità di un cambiamento sistemico?

Ci sono molte risposte a questa domanda. Una delle più formidabili resistenze al cambiamento è la forza del patronaggio. I paesi più ricchi continuano a finanziare specifiche agenzie ONU selettivamente, per progetti coincidenti con le proprie strategie internazionali. Tali finanziamenti mirati (“earmarked contributions”) spesso coincidono con necessità di sicurezza e di crescita economica del paese finanziatore, non necessariamente con i bisogni del paese beneficiario. In altre parole, tali paesi donatori sostengono un programma ONU quando coincide con la propria agenda nazionale. Una conseguenza pratica di questa attitudine è la significativa decrescita dei fondi generali per lo sviluppo, a vantaggio dei contributi finanziari vincolati a specifici progetti da singoli paesi donatori.

I paesi in via di sviluppo d’altro lato, spesso preferiscono quelle organizzazzioni dell’ONU che ritengono più “sensibili” ai loro bisogni. O meglio, alla volontà dei loro governi, specialmente quelli con opache credenziali democratiche.

La conclusione è che i diversi stati membri delle Nazioni Unite, sia del Nord che del Sud, per differenti ragioni sono in realtà accomunati da una generale esitazione a implementare un processo di riforma strutturale. Questa esitazione è la conseguenza del timore che una vera riforma dissolva l’intricata rete di privilegi politico-economici che connette il paese donatore al paese destinatario di fondi. Troppi Stati preferiscono perseguire vantaggi di breve termine da un sistema ONU che loro stessi riconoscono come disfunzionale, ma che in ultimo risponde prevedibilmente ai loro bisogni nazionali.

A ciò si aggiunge che il sostegno internazionale alle Nazioni Unite è stato significativamente indebolito dalla recente proliferazione di ideologie inerentemente nazionaliste, insensibili (quando non ostili) al mandato dell’ONU.

Tutto questo si traduce in :

1. un indebolimento del sostegno politico e popolare verso le Nazioni Unite come partner necessario nel prevenire e affrontare crisi internazionali;

2. una conseguente erosione di finanziamenti per le Nazioni Unite.

Quanto detto è certamente contraddittorio, dal momento che è difficile identificare oggi una crisi nazionale disconnessa da fattori internazionali. Cionondimeno, il sistema delle Nazioni Unite continua a scivolare nell’irrilevanza, trovandosi oggi di fronte ad una crisi esistenziale senza precedenti, una crisi insieme di credibilità e di liquidità. Il futuro – o meglio, la stessa esistenza delle Nazioni Unite, dipende dalla sua capacità non più solamente di riformare se stessa, ma di rifondarsi strutturalmente. A cominciare, dalla compromessa crediblità del Consiglio di Sicurezza.

Nessuno dei cinque paesi detentori di potere permanente di veto in Consiglio di Sicurezza, ha sino ad ora accettato di rinunciare al proprio ruolo privilegiato. È quindi improbabile che nel prossimo futuro si assista ad un genuino negoziato sulla riforma del Consiglio. È più plausibile immaginare che una discussione sulle riforme si concentri inizialmente sulla Assemblea Generale.

Tale discussione potrebbe essere dedicata al tema dell’ampliamento della rappresentatività dell’Assemblea, fino ad oggi limitata al principio di una nazione/un voto. In un secondo momento, l’inclusione in Assemblea di altre realtà rilevanti nel contesto internazionale potrebbe essere vista con meno resistenza dalla maggioranza degli stati membri. Per esempio, la creazone di un “Parlamento del mondo”, un tema su cui è fondamentale discutere per raggiungere un consenso su come modernizzare le Nazioni Unite e democratizzare il sistema di governo internazionale, rafforzandone la rappresentatività.

Probabilmente gli stati membri continueranno a divergere sulla interpretazione di fondamentali principi della carta delle Nazioni Unite. Possiamo immaginare che la Cina e la Russia privilegeranno la necessità di preservare la integrità territoriale, sovranità e indipendenza degli stati; Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia d’altro canto rileveranno che la sovranità di stato non può essere usata come schermo contro misure di protezione di civili a rischio di colflitto (come nei casi di Syria, Myanmar, ecc.), solo per citare due probabili esempi di un futuro contesto negoziale.

“L’ONU non è stata creata per accompagnare l’uomo in paradiso ma per salvarlo dall’inferno”, Dag Hammarskjiold disse in uno dei suoi più famosi discorsi all’Assemblea Generale. Forse l’attuale crisi pandemica potrebbe oggi costringerci ad accettare che le grandi sfide che abbiamo di fronte non riconoscono frontiere nazionali. Potremmo finalmente liberarci di banali interpretazioni che riducono alla globalizzazone la causa di tutti i mali contemporanei. Nel XIV secolo non esisteva internet né trasporto aereo, cionondimeno in pochi mesi la peste eliminò la metà della popolazione dell’Europa. 

Il vero rischio che corriamo non è quello delle future minacce virali o belliche, ma è il rischio della mancanza di coordinamento e di leadership politica nella risposta alle grandi sfide del futuro. Con milioni di persone in isolamento in ogni parte del mondo, l’attuale epidemia pandemica offre un esempio brutalmente esplicito delle devastazioni causate da una calamità globale in un contesto internazionale ecletticamente frammentato. E se le implicazioni geopolitiche sono secondarie a priorità di salute e sicurezza, tali implicazioni potrebbero diventare forse ancora più conseguenziali nell’avvenire. La Cina è avanzata con rapida decisione nel colmare il vuoto lasciato dall’incertezza degli organismi internazionali e di quei paesi leader che nel passato avevano contribuito crucialmente alla formazione di forti coalizioni per rispondere alle grandi emergenze. Gli Stati Uniti sembrano disorientatamente consumati da incoerenti retoriche domestiche, che hanno sino ad ora impedito di concentrarsi strategicamente sulla centralità di una risposta globale. 

La decostruzione del sistema multilaterale e la tentazione isolazionista di risolvere minacce globali attraverso soluzioni nazionali, è una illusione che potrebbe avere effetti fatali sul futuro della nostra umanità. Forse, anche più di un’epidemia pandemica.

Paolo Lembo

docente presso L'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica di Milano e presso l’Istituto Sciences Po di Parigi, già capo missione per l’ONU e Direttore Generale WGEO

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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