L’interpretazione della norma giuridica
tra rispetto ed abuso dei principi

Riprendo, con questo intervento, le riflessioni iniziate con il precedente articolo del gennaio 2020 (Dimensione Informazione n. 13) su modi e metodi, adottati dal nostro Legislatore, in tema di giustizia.

L’occasione è fornita dalla decisione della Corte Costituzionale del 26/02/2020, conseguente la mancata previsione di un regime transitorio della legge n. 3 del 9/01/2019, enfaticamente denominata “spazza corrotti”.

La legge richiamata (n.d.r. L. n. 3 del 09/01/2019), equiparando la corruzione ad altri reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia, terrorismo, droga ha di conseguenza inteso accomunare, anche il trattamento sanzionatorio, all’impossibilità di applicare misure alternative alla detenzione.

In particolare, la Corte è stata sollecitata dunque a pronunciarsi, in mancanza di specifica disposizione normativa, sulla legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 6° lettera b, in quanto interpretata nel senso che la modifica, introdotta nell’art. 4 bis, comma 1° della legge 26 luglio 1975, n. 354, in tema di esecuzione  delle misure di privazione e limitazione della libertà personale ed il diniego del permesso premio, si riferiscano anche ai condannati che abbiamo commesso il fatto antecedentemente all’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019 n. 3.

Dinanzi a tale interpretazione, immediate e numerose sono state le eccezioni che, pur con diverse argomentazioni, hanno tutte fatto riferimento alla violazione dell’art. 25, secondo comma della Costituzione, secondo cui “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

La disamina, operata dalla Corte Costituzionale, è stata di ampio respiro, affrontando il problema sotto ogni profilo dedotto nei ricorsi.

La Corte, inizialmente, ha dato atto che il “diritto vivente”, in tema di esecuzione delle pene, si è espresso, in linea generale, per il divieto di applicazione della legge in maniera retroattiva. Ciò in ossequio al dettato di cui all’art. 25, 2° comma della Costituzione.

La Corte però ha ulteriormente sostenuto che la risposta all’interrogativo prospettato, in effetti, meriti un più diffuso approfondimento.

Ragioni e necessità di politica criminale possono infatti sollecitare interpretazioni del principio costituzionale non in senso assoluto ma correlato con altri principi, egualmente riconosciuti.

Secondo la Corte, in conseguenza di tale affermazione, le pene detentive possono ricondursi, dunque, alla legge in vigore al momento della loro esecuzione e non al tempo del commesso reato.

Ogni norma giuridica, invero, costituisce il prodotto di una valutazione affidata al Legislatore, che muove dall’analisi delle esigenze della collettività.

La normativa applicata non deve però comportare una trasformazione della natura delle pene e l’incidenza sulla libertà personale. In tale ipotesi la legge da applicare rimane quella vigente al momento del fatto rispettando così il dettato dell’art. 25, 2° comma della Costituzione.

La Corte, con tale puntualizzazione, non ha definitivamente concluso la sua disamina, riconoscendo che i requisiti indicati, ai fini dell’individuazione della legge da applicare, necessitano di un migliore ed ulteriore approfondimento ai fini di eliminare, in nuce, “il diffuso disagio provocato nella giurisprudenza di merito” ed anche in quella di legittimità.

Invero, ha sottolineato la Corte, la normativa n° 3 del 2019 ha, sin dalla sua emanazione, sollevato dubbi in relazione ai criteri elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

L’interpretazione adottata ha, in buona sostanza, lasciato inalterato l’interrogativo se la norma in questione abbia natura penale sostanziale o procedurale e se, di conseguenza, nel caso di specie, viga o meno il principio del “tempus regit actum”.

Il richiamo ai principi stabiliti dalla CEDU ha inoltre portato la Corte Costituzionale a ricordare gli sviluppi recenti rappresentati dalle sentenze pronunciate a Strasburgo, anch’esse inizialmente assertrici di un deciso rifiuto della retroattività delle decisioni, ma successivamente invece, a partire dal 2008 con il processo Camera del Rio Grande contro la Spagna, più propense ad affermare il principio secondo cui, le modifiche all’esecuzione della pena, non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta per quelle che determinano una ridefinizione o modificazione della portata della pena comminata del giudice.

Rilevante appare, sul punto la conseguente precisazione della Corte secondo cui il divieto di applicazione retroattiva delle pene, non previste al momento del fatto, “opera come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, fondamentale per il concetto di stato di diritto”.

Tuttavia, secondo la Corte, non può revocarsi in dubbio che egualmente, come già accennato in precedenza, esistano solide ragioni che legittimano l’esecuzione della pena in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, riconoscendo la necessità di dover garantire delicate esigenze e superiori interessi dello Stato. Sono dunque queste esigenze e questi interessi a legittimare la diversa modulazione dei diritti quesiti.

Va inoltre rilevato, secondo la Corte, che un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva delle norme relative all’esecuzione, finirebbe per determinare un’evidente disparità di trattamento dei condannati, legati ciascuno al momento dell’esecuzione delle rispettive sentenze o al tempo del commesso reato.

Correttamente dunque, la Corte ha evidenziato la necessità di individuazione, nella risoluzione del problema prospettato, di criteri in grado di offrire parametri di certezza e di correttezza di principi.

Si tratterà dunque, di individuare, caso per caso, se le misure da applicare incidano sulla qualità e quantità delle stesse in grado quindi di modificare e limitare la libertà personale, costituendo, in definitiva, “vere e proprie pene alternative, incidenti anche nel percorso rieducativo del condannato”.

La ricorrenza o meno di tali caratteristiche costituisce, dunque, il vero discrimine tra la violazione del principio costituzionale richiamato e la legittima e corretta applicazione della norma.

Sin qui l’approfondita disamina compiuta dalla Corte Costituzionale, che si è cercato di riassumere, sia pure con veloci richiami.

La questione prospettata però sembra, aldilà della condivisa e puntuale motivazione, richiamare un rilevante soffuso problema di fondo, che supera lo specifico riferimento al caso di specie per adombrare un’inquietante tendenza, nel campo del diritto, proiettata verso un disinvolto, generale e pericoloso comportamento.

La norma giuridica invero costituisce, come si è già detto, il prodotto della valutazione del Legislatore.

Questi muove dall’analisi delle esigenze umane ed è motivato dalla volontà di consentire e garantire a tutti gli individui, di convivere, capirsi e conseguire il reciproco rispetto dei propri diritti.

Da ciò nasce e si esprime il diritto delle genti!

Dinanzi a tale quadro appare chiaro che il diritto dovere dello Stato trovi unica forza e giustificazione nel pronunciamento di una legge “pensata”, rispettosa cioè dei principi della dignità umana, coerente nella correlazione con altre norme, chiara nella sua interpretazione, certa nella sua applicazione.

Di conseguenza il silenzio normativo, la carenza di criteri di riferimento, le omissioni che consentono, o meglio, favoriscono trasferimenti, attribuzioni o arrogazioni di competenze non previste, offrono un quadro non in linea con i requisiti elencati, estranei quindi al diritto.

Sant’Agostino, nel De Civitate Dei, ebbe ad ammonire: “togli il diritto ed allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”.

Se così è, anche l’interpretazione delle leggi non può sottrarsi a precisi criteri, anch’essi rispettosi dei principi elencati.

Interpretazioni evolutive, orientate a seguire direttamente impulsi, emozioni, reazioni piuttosto suggerite dalla moda, non sorrette da meditate ed esplicite previsioni del Legislatore, comportano il pericolo di un vero e proprio abuso del diritto.

L’interpretazione delle norme, non strettamente collegate ad una certa ed esplicita volontà del Legislatore, non sembra possa trovare una cittadinanza costituzionale.

L’eventuale suo riferimento ad una necessaria rigorosità sembra acquisire il significato di una vendetta, consentita attraverso una competenza temporale prevaricatrice che non invece mediante una corretta applicazione di fondamentali principi.

Ciò è tanto più grave in quanto un tale comportamento, di recente, mostra di volere acquisire sempre più il carattere di una frequenza generalizzata, non limitata dunque al solo caso esaminato dalla Corte Costituzionale.

In aggiunta, va infine considerato che il riferimento a fatti pregressi sembra trasgredire il significato dei provvedimenti adottati, tutti orientati, sin dalla loro radice lessicale, verso eventi futuri.

Ritenere pertanto che l’emanazione e l’interpretazione di norme giuridiche possa rivolgersi a tempi passati, non serve ad esprimere una rigorosa, severa e necessaria applicazione della legge, quanto una pericolosa tendenza, se non un minaccioso comportamento di abuso di potere, sinistro retaggio di regimi autoritari e prevaricatori, non degno di una Stato democratico.

Un vecchio motto saggiamente ammonisce: “la bontà di una legge si misura non dal rigore che esprime, ma dalla saggezza di chi la applica!”

Luigi Ciampoli

Magistrato, docente di procedura penale Università di Urbino, già procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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