In poche settimane l’ospedale dove lavoro da sempre, il Papa Giovanni XXIII di Bergamo, si è trasformato, è divenuto Centro di riferimento regionale per la cura delle polmoniti da Corona Virus.
La riorganizzazione ha coinvolto tutti i reparti di degenza: ad oggi oltre 500 dei 780 posti di degenza sono stati trasformati per accogliere pazienti con polmonite virale, 92 sono i posti di terapia intensiva dedicati ai pazienti più gravi.
Si è cercato, per quanto possibile, di salvaguardare l’integrità delle equipe medico-infermieristiche. Poter fronteggiare l’emergenza con colleghi che si conoscono ha aumentato l’efficienza e ridotto significativamente lo stress di medici e infermieri. I rinforzi, che sono venuti ad aiutarci da diverse regioni e anche da paesi lontani, si sono inseriti più facilmente in equipe già sufficientemente organizzate.
Ci avete visto in televisione: per proteggerci dal contagio ci copriamo con mascherina, cuffia, fazzolettone al collo, camice monouso fin sotto alle ginocchia. Abbiamo imparato ad associare il nome allo sguardo, perché sai di poter contare su chi chiami per nome.
Dal 6 marzo con altri neurologi e con gli infermieri della neurologia, diretti da 2 infettivologi, ci prendiamo cura di 46 degenti con polmonite da CoV-2. Con l’aiuto di infermieri esperti e di specialisti infettivologi, pneumologi e intensivisti, abbiamo imparato a curare con competenza crescente chi ha una polmonite virale. Ci muoviamo in sicurezza riducendo il rischio di diffondere il contagio; per ora la maggior parte di noi è rimasta asintomatica.
Ho un’esperienza specialistica, sono sempre stato neurologo ospedaliero, ho imparato presto che se volevo capire qualcosa del mio lavoro dovevo trovare un modo per guardarlo da fuori: dal 1995 una parte del mio tempo è dedicato alla cura di chi ha una malattia cronica, che non può guarire.
Diversamente dal solito, in questa occasione drammatica e dolorosa, è proprio in ospedale che ho avuto l’opportunità di capire.
Personalmente non mi sento in guerra e nemmeno in trincea. Non siamo al fronte, non vedo nemici, molti tirano fuori il meglio. Procediamo come pionieri, ogni giorno, in carovana, in cerca di una nuova frontiera.
Vedo che, anche fuori, ci prendiamo cura gli uni degli altri, resistiamo, esploriamo, cerchiamo di capire la vita. Abbiamo imparato che la mascherina serve soprattutto per non contagiare gli altri; sappiamo sorridere con gli occhi e se ci laviamo le mani possiamo ancora riscoprire il dono di una carezza.
Ieri pomeriggio ho accompagnato in terapia intensiva una giovane donna che non conoscevo, era ricoverata da qualche giorno per una Polmonite da Corona Virus.
Dalla sera precedente era in peggioramento, non aveva più la febbre ma respirava veloce e aveva sempre più bisogno di ossigeno. Si era fatta promettere dalla infettivologa, rientrata dall’Inghilterra per darci una mano, che in caso di peggioramento, soprattutto se avesse avuto bisogno della terapia intensiva non dovevamo avvisare il marito, non voleva che si preoccupasse e temeva di far soffrire la figlia, sicura che sarebbe guarita, dopo avrebbe avuto il tempo per raccontare.
Dopo pranzo la dispnea era aumentata, nonostante il passaggio alla ossigenoterapia ad alto flusso, nel casco. L’emogas-analisi non lasciava speranze.
Quando sono arrivato per iniziare il mio turno, la giovane infettivologa non poteva darmi le consegne, stava visitando la giovane donna insieme a un intensivista, che ho subito riconosciuto nonostante coperto dalla testa ai piedi, ma avevamo lavorato insieme per 25 anni. Un anno fa era andato in pensione, da qualche settimana era di nuovo con noi, tutti i giorni. La collega lo aveva chiamato, non convinta della decisione presa la mattina: la paziente non poteva essere ammessa alla terapia intensiva perché i suoi precedenti indicavano una bassissima probabilità di successo, aveva una fibrosi polmonare e la cirrosi epatica, forse autoimmune. Eppure la giovane donna era sicura che con la terapia intensiva sarebbe guarita dalla polmonite. Si preoccupava più per il marito e la figlia, che per la sua salute.
L’infettivologa aveva dei dubbi, c’erano diversi punti che dovevano essere chiariti e così, ha chiamato lo pneumologo che l’aveva in cura, prontamente arrivato per il consulto: l’aveva visitata qualche settimana prima per il periodico controllo della fibrosi polmonare che era stabile da anni, anche l’epatopatia sembrava stabilizzata, lui era del parere che valeva la pena di provare anche la ventilazione invasiva. La paziente dormiva ed era appena stata sedata per alleviare la dispnea, ma aveva già dato il suo consenso. Anche il mio amico intensivista pensava che la decisione doveva essere cambiata, era il momento di trasferirla in terapia intensiva.
La giovane infettivologa era commossa, le sembrava che quella fosse una decisione migliore. Si è finalmente seduta, ha alzato il telefono e ha chiamato il marito della giovane donna.
Io ero lì che preparavo la relazione per il trasferimento.
Sappiamo tutti che questa epidemia ha determinato un incredibile aumento di posti letto in terapia intensiva. Quello che probabilmente non tutti sanno è che, nonostante il trasferimento dei malati in ospedali di altre regioni e di altri stati europei, i posti disponibili sono sempre stati insufficienti ad accogliere tutti: facciamo fatica a raccontarlo, ma ancora oggi per far posto a chi ha maggiori probabilità di successo è necessario decidere di non iniziare o di sospendere la terapia intensiva in persone che hanno una minore probabilità di sopravvivere.
Quello che fino a un mese fa era una decisione eccezionale, legata a circostanze rarissime, con l’epidemia è divenuta una decisione quotidiana. Nonostante il documento tempestivamente pubblicato dalla Società degli anestesisti-rianimatori italiani (SIAARTI 6-3-’20, Raccomandazioni di Etica Clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni di squilibrio tra necessità e risorse disponibili) chi ha dovuto prendere queste decisioni raramente è riuscito a parlarne. Alla fine anche i giornalisti hanno smesso di incalzare i direttori delle terapie intensive che hanno preferito rassicurare l’opinione pubblica: “siamo riusciti ad accogliere tutti quelli che avrebbero potuto migliorare con la terapia intensiva, nessuno è stato escluso da una terapia potenzialmente efficace”.
Il dilemma “chi devo curare se non posso curare tutti” è stato negato dai più. Pochi l’hanno ammessa, qualcuno come il mio amico intensivista l’ha raccontata come una scelta che “spezza il cuore”, che qualche volta deve essere presa nell’emergenza di una crisi respiratoria.
Questa decisione spesso coinvolge più medici contemporaneamente: curanti e consulenti si alternano al letto del paziente, valutano i dati clinici talvolta incompleti, incerti, o di non univoca interpretazione. Ciascuno degli specialisti è portatore di competenze, interessi e responsabilità diverse, spesso implicite, difficili da condividere o in conflitto tra loro.
In ogni caso si tratta di decidere nell’incertezza, stimando la probabilità degli esiti, spesso senza poter conoscere il valore che a questi esiti avrebbe attribuito il paziente.
Il cosiddetto triage, di cui soprattutto all’inizio dell’epidemia qualcuno ha parlato, non è un algoritmo che prende decisioni al posto del medico, è uno strumento per cercare insieme decisioni migliori, basandosi su principi di equità e criteri espliciti e condivisibili. Prima ancora di essere utilizzato, il triage è una procedura formalizzata che può essere valutata e pubblicamente discussa, può essere uno stimolo alla riflessione comune, un pretesto per conoscere i principi di equità, i meccanismi allocativi e i criteri che possono servire per assegnare un bene scarso come la ventilazione invasiva e il posto letto in terapia intensiva.
Credo che quando questa epidemia sarà passata potremo fare tesoro della lezione, ammettere che il limite delle risorse ci impone di affrontare il tema dell’equità nella loro assegnazione.
Verrà il momento di parlarne in incontri pubblici, a scuola, nelle associazioni, negli ospedali, sarà necessario informarsi anche su questo argomento, acquisire maggiore consapevolezza, trovare le parole adeguate per raccontare il tipo di decisioni. Con il contributo di tutti sarà possibile rompere il tabù sulle decisioni che determinano l’accesso e la dimissione alla terapia intensiva.
Nel frattempo i curanti, come esploratori alla scoperta della nuova frontiera della cura, continueranno a impegnarsi alla ricerca di una decisione migliore, rispettosa, sostenibile ed equa.
Anche nell’emergenza, una buona decisione è possibile, affonda le sue radici nella biografia della persona, nelle speranze raccolte al telefono dai suoi familiari lontani, talvolta in quarantena.
È prezioso il tempo della cura che precede la crisi respiratoria, la sedazione farmacologica, la terapia intensiva, è il tempo in cui possiamo ancora ascoltare la persona, conoscere i suoi desideri, permetterle di partecipare alla pianificazione delle cure, e prometterle che in ogni caso non sarà abbandonata.