Sono tanti gli scenari ai quali un medico non è preparato dal momento in cui ottiene l’abilitazione alla professione. Questa è fonte di curiosità in alcuni, di angoscia in altri. La paura è quella di non essere all’altezza e di non sapere se la preparazione sia sufficiente a fronteggiare la gestione del paziente. Nei testi di medicina il coronavirus è un virus come altri, che magari hanno effetti più devastanti sull’uomo. Inconsapevolmente crediamo che le epidemie siano roba da terzo mondo, da guerra, da degrado sociale e quindi lontane dalle nostre città pulite e civilizzate. I vaccini (ringraziamo di avere la possibilità di farli) ci proteggono dal diffondersi di vecchie infezioni; tuttavia l’ebola, la malaria, la tubercolosi e molte altre uccidono ancora. Personalmente ho visto alcune di queste con i miei occhi – in Uganda ed in Etiopia – e questo mi ha reso consapevole di essere, senza merito, privilegiato. Credo che ciò che ha sconvolto le nostre vite sia la vulnerabilità di cui non siamo sempre consci, noi medici per primi; eppure siamo esposti quotidianamente, non solo ora, a rischi professionali anche più gravi del contagio da COVID-19, questo è bene ricordarlo.
Sono un medico in formazione specialistica presso la Scuola di Medicina Interna di Pavia, al Policlinico San Matteo. Siamo a non più di mezz’ora dall’epicentro dell’epidemia italiana e siamo stati uno dei primissimi centri che ha accolto pazienti COVID-19 positivi, oltre al famoso paziente zero. Non so dire come sia successo, da un giorno all’altro abbiamo capito che stava per succedere qualcosa, ma senza capirne la grandezza. Ed è così che, ormai da più di un mese, le nostre vite professionali e non, sono cambiate. Se all’inizio i pazienti COVID-19 erano confinati al Reparto di Malattie Infettive, ora sono la nostra quotidianità. La scarsità di DPI (dispositivi di protezione individuale) in Lombardia ci ha costretto a rivedere i nostri turni di lavoro: meno persone con più compiti da svolgere per non esaurire le scorte e garantirci di lavorare tutti i giorni e tutte le notti. Dato l’alto turnover di pazienti, non esiste più il concetto di weekend. Non conoscevamo inizialmente come trattare un paziente COVID, ma è stato incredibile scoprire che i pazienti sembrano uno la copia dell’altro, stessa presentazione clinica e strumentale. Abbiamo ricoverato pazienti di tutte le età, dai grandi anziani agli inattesi ventenni. Per questo motivo abbiamo dovuto imparare a gestire le NIV (non-invasive ventilation) per trattare pazienti gravi con le CPAP (macchine che offrono una pressione di supporto ventilatoria), a impostare terapie antivirali o biologiche di nuova generazione. Impariamo dagli errori, dall’esperienza di altri Centri, questo è quello che mi continua ad affascinare della medicina: è una scienza fluida, cambia continuamente.
La mia giornata tipo inizia con la vestizione nelle stanze pulite in cui indosso i DPI, attenendomi a procedure protocollate, impiegando circa 30 minuti. Poi si inizia prendendo i parametri vitali di tutti i pazienti, interpretando gli esami del sangue e le radiografie, impostando le terapie, regolando i flussi di ossigeno che quasi ogni paziente assume. Questo virus toglie a tutti l’ossigeno, dal paziente con la polmonite, al personale sanitario nelle mascherine soffocanti, al parente del paziente che non può vedere il proprio caro. La giornata vola perché i pazienti sono tanti e spesso sono “instabili”, dunque possono peggiorare da un momento all’altro, possono richiedere l’intubazione o avere un arresto cardiocircolatorio. Si tratta di pazienti che un giorno respirano con un minimo supporto di ossigeno e il giorno dopo possono aver bisogno della ventilazione invasiva, pazienti che non sai se troverai nel loro letto la mattina successiva.
La parte della giornata per me più difficile è quella delle telefonate. Parlare con i parenti è difficile, anche questo non si insegna all’università. Comunicare la morte del padre ad un tuo coetaneo, dire alla moglie che il marito verrà intubato o, peggio, che non può essere portato in Rianimazione perché non c’è posto per lui, queste sono le cose che ti porti a casa e nella vita. Ma anche le chiamate ai rianimatori non sono semplici, perché capita ogni giorno (spesso più volte al giorno) di dover provare a trasferire i pazienti gravi in Rianimazione. Però le terapie intensive sono piene, sempre, e allora parte un confronto fatto di pro e di contro, di aspettative di vita che ogni paziente ha e questo è ancora più duro, perché è in quel momento che si sceglie se il paziente avrà altre chance o se per lui rimarrà solo la speranza di farcela. Parliamo di pazienti dell’età di nostro padre o nostra madre. Sembra una lotta assurda in cui entrambi si vince o entrambi si perde, perché quando il rianimatore ci dice di non poter prendere il paziente, soffre insieme a noi. Paziente oncologico, paziente anziano, paziente pluripatologico, sono tutti pazienti che perdono il diritto di priorità rispetto ad un paziente più giovane o senza malattie pregresse. Come farlo sembrare giusto agli occhi di un parente?
Questo virus ha tirato fuori da ciascuno di noi il “carattere”, svelando i pavidi e gli instancabili, i sensibili e i cinici. È strano, ma provo un certo egoismo quando, stando a casa, mi sento meno partecipe, mentre vorrei essere protagonista. Rientrare a casa distrutto e crollare sul divano guardando un film e svegliarmi alle 3 di notte per trascinarmi sul letto, mi fa stare meglio che poltrire a casa tutto il giorno prendendo impegni che probabilmente non porterò a termine.
Nonostante tutto, voglio credere che questa esperienza lascerà in ognuno di noi cicatrici più o meno profonde, che ci ricorderanno l’importanza delle cose vere, delle relazioni, della collaborazione, del tempo per se stessi e della fortuna di vivere in un Paese con un buono (ma potenzialmente ottimo) Sistema Sanitario.