In questo periodo in tanti (anche troppi e senza cognizione di causa) parlano del virus chiamato coronavirus, proprio perché al microscopio elettronico sembra avere una corona o un’aureola. Eppure di regale o di mistico questo virus non ha proprio nulla. Da marzo la fisionomia degli ospedali è completamente cambiata. Una malattia ha colonizzato l’intero ospedale. Potremmo dire ogni ospedale, anzi tutti gli ospedali. Certamente è una malattia con diversi gradi di presentazione. Da forme lievi (frequenti e che spesso non richiedono l’ospedalizzazione) a forme crescenti di gravità, soprattutto dal punto di vista respiratorio, quando i pazienti hanno necessità di ossigeno, somministrato attraverso cannule nasali, ma più spesso con le maschere, passando da una bassa percentuale di ossigeno, via via a una maggiore percentuale di ossigeno, fino ad arrivare a maschere con ossigeno spinto sotto pressione (ventilazione non invasiva). Nei casi più gravi è appunto necessaria la ventilazione invasiva, che si effettua previa intubazione e che richiede il ricovero in terapia intensiva.
La mia testimonianza vuole porsi nell’ottica dei pazienti ricoverati, le loro attese e le speranze, considerato anche che un buon numero di questi sono operatori sanitari, colleghi e amici. L’assistenza del malato da un punto di vista psicologico è un aspetto importante, fondamentale, tutt’altro che trascurabile per contribuire al suo recupero.
All’arrivo in Pronto Soccorso il paziente e già edotto della gravità della situazione ed è atterrito dal timore di morire per infezione. Inizia così un percorso di “isolamento” umano e relazionale, che dura praticamente durante tutta la permanenza in ospedale. Isolamento e solitudine, che non valgono solo per i soggetti in terapia intensiva, ma anche per i pazienti ricoverati nei reparti di degenza, universalmente chiamati Reparti COVID.
In isolamento, in stanza singola o doppia, il paziente è costretto ad indossare una mascherina, un dispositivo di somministrazione di ossigeno che rappresenta un impedimento a tante attività come il parlare (anche con lo smartphone), l’ascoltare bene (alcuni dispositivi sono rumorosi), bere ed alimentarsi normalmente, fino ad avere difficoltà a muoversi. Per tutti questi motivi, il paziente è costretto a letto, il che peggiora ulteriormente il disagio fisico e psicologico, trovandosi del tutto dipendente dal personale sanitario. A ciò si aggiunge che vede arrivare “marziani” con caschi e tute, irriconoscibili in volto, spesso diversi, dovendosi alternare in turni massacranti di 10/12 ore. Saltano riferimenti “storici” che per il malato sono il medico, la caposala, l’infermiere di corsia, che fanno solitamente il “giro visita” e che egli considera i propri angeli custode.
Uno sguardo, il movimento del capo, un piccolo gesto della mano sono spesso gli unici modi per comunicare la richiesta di aiuto e la paura di non farcela.
A tutto ciò si aggiunge forse il più pesante degli isolamenti, la mancanza degli affetti, l’assenza delle visite dei familiari, spesso la difficoltà a parlare anche con i telefonini. E questo ha un impatto notevole, per non dire devastante, anche sui familiari.
Noi come Fondazione Poliambulanza siamo fortemente impegnati anche su questo campo, perché l’aspetto psicologico e il carattere umano del disagio incidono fortemente sulla possibilità di recupero del malato. Stiamo cercando di ridurre al minimo lo stress del paziente e dei familiari, mettendo in atto varie misure. Ci presentiamo al paziente e parliamo diffusamente, spiegandogli cosa facciamo quotidianamente, rendendolo partecipe dell’assistenza e delle cure per ridurre al minimo l’allettamento e la dipendenza. Inoltre, grazie alla disponibilità di tablet forniti dalla Direzione, attiviamo, tramite gli infermieri, videochiamate con i parenti ed ogni medico effettua almeno una telefonata al giorno per rendere edotti i familiari sulle condizioni del congiunto.
E per far tutto questo, da Primario di un reparto, non posso esimermi dal ringraziare medici, infermieri, OSS, ausiliari, che, ognuno per le proprie competenze, ma con la stessa dedizione e passione, stanno rendendo meno penosa questa tragedia.
Il paziente per noi è importante, non solo come soggetto da salvare, ma quale persona da curare, accudire e rassicurare in un percorso difficile, in un tunnel orribile che, una volta imboccato, incide in maniera preoccupante sulla tenuta psicologica dello stesso malato. La centralità dell’uomo, come medici e nei rapporti con i nostri pazienti, noi la viviamo anche così.