Hanno detto… sul numero 16, aprile 2020 • anno 2

Roberto Serrentino
“La prossima settimana è previsto il picco. Questo weekend il picco. Settimana decisiva, si raggiunge il picco. Picco raggiunto, ci sono riscontri dai modelli matematici. Si allontana il picco.”
Queste ed altre dello stesso tenore sono le informazioni che da un mese politici, amministratori pubblici e istituzioni varie continuano a propinare alla popolazione attonita di fronte a tanta approssimazione.
Perché creare aspettative, illusioni e, quindi, disillusioni e sconforto, comunicando picchi presunti, regolarmente smentiti? E poi, il picco di cosa: del numero dei decessi, degli ingressi nei nosocomi, degli intubati, dei guariti?
È un caos. È uno di quei momenti in cui la disinformazione la fa da padrona, infettando quelli che dovrebbero essere dati e notizie certi.
Si comunichino i numeri e non si creino illusioni. I numeri dei contagi, dei decessi e dei guariti sono neutri, freddi, ma rappresentano la realtà, danno concretezza al problema coronavirus e alla sua evoluzione, non serve aggiungere altro. Fa più rumore una previsione disattesa che un fatto.
Papa Francesco, per riprendere una delle sue memorabili frasi, ha detto: “Non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere cosa accade”.
Fuori retorica, è indubbio come il Covid-19 nel nostro Paese stia anche diffondendo quei sentimenti di solidarietà, compassione, altruismo, fratellanza, in parte sopiti. Spero che dalle macerie di un’esperienza così devastante possa nascere davvero un nuovo mondo, migliore per la convivenza sociale, sinceramente rivolto al bene comune e soprattutto con uno sguardo più amorevole al mondo degli invisibili, come i 60 mila carcerati e i 50 mila senzatetto, anche se, lasciatemi dire, ho un certo timore che questo potrebbe non accadere.

Testimonianza di Attilio Fontana
In Lombardia ci siamo trovati ad affrontare una crisi senza precedenti e abbiamo, sin dal primo giorno, reagito senza perdere un momento, mettendo in campo una task force ad hoc e mobilitando una tale complessità di forze che neanche sapevamo di avere.
Abbiamo concentrato le nostre energie sull’unica strategia che aveva dimostrato di dare buoni risultati a Wuhan: la chiusura – sulla base delle nostre competenze – di tutte le attività possibili e i luoghi di studio, di lavoro e di aggregazione e il contenimento delle persone dentro le proprie case.
Scelte sofferte ma necessarie, assunte in un rapporto con il governo anche aspro a volte, ma sempre nel segno della collaborazione istituzionale.
Se in principio abbiamo investito soprattutto sull’ospedalizzazione dei pazienti, è stato perché era altissima la domanda da parte dei cittadini che avevano un forte bisogno di cure importanti.
Sul fronte della comunicazione abbiamo scelto la trasparenza. Regione Lombardia, attraverso la sua agenzia di stampa ‘Lombardia Notizie’, con una media di 8 comunicati al giorno, una conferenza stampa quotidiana e costanti aggiornamenti anche in diretta sui profili Facebook, Instagram, Twitter e Youtube, ha informato, costantemente, i cittadini sull’evolversi della situazione pandemica.
L’emergenza sanitaria ha infine evidenziato anche i limiti dell’idea stessa di Unione Europea. Finché non sono state coinvolte Francia e Germania, siamo rimasti completamente soli nella gestione della crisi. Mi auguro che questa traumatica esperienza possa essere l’occasione per ripensare le fondamenta di una casa comune che, purtroppo, non ha dimostrato di essere tale proprio nel momento del bisogno.

Testimonianza di Tony Sabatini
La mia testimonianza vuole porsi nell’ottica dei pazienti ricoverati, le loro attese e le speranze, considerato anche che un buon numero di questi sono operatori sanitari, colleghi e amici.
Il paziente è costretto a letto, trovandosi del tutto dipendente dal personale sanitario. A ciò si aggiunge che vede arrivare “marziani” con caschi e tute, irriconoscibili in volto, spesso diversi, dovendosi alternare in turni massacranti di 10/12 ore. Saltano riferimenti “storici” che per il malato sono il medico, la caposala, l’infermiere di corsia, che fanno solitamente il “giro visita” e che egli considera i propri angeli custode.
Uno sguardo, il movimento del capo, un piccolo gesto della mano sono spesso gli unici modi per comunicare la richiesta di aiuto e la paura di non farcela.  
A tutto ciò si aggiunge forse il più pesante degli isolamenti, la mancanza degli affetti, l’assenza delle visite dei familiari. E questo ha un impatto notevole, per non dire devastante, anche sui familiari.
Noi come Fondazione Poliambulanza siamo fortemente impegnati anche su questo campo, presentiamo al paziente e parliamo diffusamente, spiegandogli cosa facciamo quotidianamente, rendendolo partecipe dell’assistenza e delle cure per ridurre al minimo l’allettamento e la dipendenza.
Il paziente per noi è importante, non solo come soggetto da salvare, ma quale persona da curare, accudire e rassicurare in un percorso difficile, in un tunnel orribile che, una volta imboccato, incide in maniera preoccupante sulla tenuta psicologica dello stesso malato. La centralità dell’uomo, come medici e nei rapporti con i nostri pazienti, noi la viviamo anche così.

Testimonianza di Andrea Bonito
In questa epidemia stiamo tutti apprendendo molto e crescendo, come medici ma soprattutto come persone. Il nostro primo maestro sono i malati.
C’è bisogno di curanti, professionisti capaci di ascoltare, di collaborare, di chiedere aiuto, di imparare e di insegnare. Con dedizione, generosità e resistenza si stanno spendendo ed esprimendo tutte le professioni sanitarie.
Un’epidemia, che chiaramente stava assumendo dimensioni incontrollabili, stava già straripando oltre gli argini tracciati intorno alle zone rosse dove all’inizio ci si illudeva di poter arginare il contagio. La chiamano medicina delle catastrofi. E la risposta a quel punto per me come per molti altri colleghi è stata istintiva, immediata, naturale: fare il dottore non è soltanto un mestiere.
Ecco cos’è un medico in area COVID-19: un medico che è arrivato al nocciolo della sua professione; dal punto di vista delle conoscenze specifiche poco ci è richiesto per la cura della maggior parte di questi pazienti; dal punto di vista umano ci è richiesta invece una preparazione estrema. All’università l’anima non ci hanno insegnato a esercitarla. La nostra palestra sono stati i malati, gli affetti, la famiglia, la vita stessa.
“Ὁ βίος βραχύς, ἡ δὲ τέχνη μακρή”. “La vita è breve, lunga è l’arte” inizia così l’aforisma più noto di Ippocrate di Kos, uno dei padri della nostra arte. Da allora il seme denso e fecondo, che ha dato vita alla nostra professione, non è mai cambiato.

Testimonianza di Umberto Sabatini
Sono un medico di 29 anni in formazione specialistica presso la Scuola di Medicina Interna di Pavia, al Policlinico San Matteo. Siamo a non più di mezz’ora dall’epicentro dell’epidemia italiana e siamo stati uno dei primissimi centri che ha accolto pazienti COVID-19 positivi, oltre al famoso paziente zero. Non so dire come sia successo, da un giorno all’altro abbiamo capito che stava per succedere qualcosa, ma senza capirne la grandezza. Ed è così che, ormai da più di un mese, le nostre vite professionali e non, sono cambiate. Se all’inizio i pazienti COVID-19 erano confinati al Reparto di Malattie Infettive, ora sono la nostra quotidianità.
Questo virus toglie a tutti l’ossigeno, dal paziente con la polmonite, al personale sanitario nelle mascherine soffocanti, al parente del paziente che non può vedere il proprio caro. La giornata vola perché i pazienti sono tanti e spesso sono “instabili”, dunque possono peggiorare da un momento all’altro Pazienti che non sai se troverai nel loro letto la mattina successiva.
Questo virus ha tirato fuori da ciascuno di noi il “carattere”, svelando i pavidi e gli instancabili, i sensibili e i cinici. È strano, ma provo un certo egoismo quando, stando a casa, mi sento meno partecipe, mentre vorrei essere protagonista.
Nonostante tutto, voglio credere che questa esperienza lascerà in ognuno di noi cicatrici più o meno profonde, che ci ricorderanno l’importanza delle cose vere, delle relazioni, della collaborazione, del tempo per sé stessi e della fortuna di vivere in un Paese con un buono (ma potenzialmente ottimo) Sistema Sanitario.

Testimonianza di Paolo Gulisano
Ho visto persone terrorizzate, probabilmente anche a causa di una strategia comunicativa fatta dalle istituzioni sbagliate, che in un primo tempo non ha fornito con chiarezza le indicazioni preventive da attuare e poi ha trasmesso paura allo scopo di obbligare le persone ad osservare le misure costrittive di isolamento. Ho visto anche un rischio pericolosissimo di aprire la strada ad una mentalità eugenetica con indicazioni di non assistere le persone al di sopra dei 75 anni col pretesto dell’insufficienza di risorse. L’auspicio è che tutto questo rimanga come uno degli effetti collaterali di una epidemia, che ha trovato impreparate le forze che si dovevano imporre e non diventi tragicamente un nuovo paradigma.
La medicina, anche in tali circostanze, deve salvaguardare l’etica e la deontologia e per far questo non deve dimenticare le lezioni del passato.

Testimonianza di Virginio Bonito
Sappiamo tutti che questa epidemia ha determinato un incredibile aumento di posti letto in terapia intensiva. Quello che probabilmente non tutti sanno è che, nonostante il trasferimento dei malati in ospedali di altre regioni e di altri stati europei, i posti disponibili sono sempre stati insufficienti ad accogliere tutti: facciamo fatica a raccontarlo, ma ancora oggi per far posto a chi ha maggiori probabilità di successo è necessario decidere di non iniziare o di sospendere la terapia intensiva in persone che hanno una minore probabilità di sopravvivere.
Quello che fino a un mese fa era una decisione eccezionale, legata a circostanze rarissime, con l’epidemia è divenuta una decisione quotidiana.
Il dilemma “chi devo curare se non posso curare tutti” è stato negato dai più. Pochi l’hanno ammessa, qualcuno come il mio amico intensivista l’ha raccontata come una scelta che “spezza il cuore”, che qualche volta deve essere presa nell’emergenza di una crisi respiratoria.
In ogni caso si tratta di decidere nell’incertezza, stimando la probabilità degli esiti, spesso senza poter conoscere il valore che a questi esiti avrebbe attribuito il paziente.

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Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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