Sia consentito richiamare una mia precedente nota pubblicata in questa Rivista, il 14 febbraio 2019: “Parole chiare in tema di sospensione della prescrizione”.
In essa era detto, tra l’altro, che – per esperienze acquisite quale magistrato – non potevo non essere favorevole al “blocco” della prescrizione sancito dalla legge 9 gennaio 2019 n. 3 con effetto prorogato al gennaio di quest’anno. Confermo tale opinione.
Un ordinamento giuridico degno di rispetto, dalle grandi tradizioni come le nostre, non può tollerare che il decorso del tempo impedisca di amministrare la giustizia in un numero abnorme di processi, così da tutelare società e cittadino a volte sì e a volte no. È, questo, un non senso! Gli esempi, anche clamorosi e scandalosi di soggetti condannati finanche in due gradi di giudizio, beneficati da una prescrizione – invece millantata per una assoluzione nel merito – sono inaccettabili: queste evenienze – ahimé frequenti – dovrebbero dare consapevolezza che è necessario salvare le garanzie di un sistema ordinamentale giusto, e che è certamente iniquo quel processo che spesso non consente di giudicare nel merito un fatto costituente reato e che invece ne legittima l’estinzione per dichiarata prescrizione!
Ciò premesso, va soffermata l’attenzione su tre punti: sull’abuso del processo consentito dalla prescrizione; sulla gratuità della declamata affermazione secondo cui il blocco della prescrizione finirebbe con il ritardare ancora di più un processo già lento; su un accenno ovviamente sommario ai rimedi processuali ben possibili.
Primo punto: che cos’è l’abuso del processo? Il concetto è stato più volte elaborato nella dottrina processualistica e nella giurisprudenza, anche di legittimità. L’abuso del processo, che di certo è un aspetto dell’abuso di un diritto, si verifica quando, pure restandosi nei canoni della legittimità formale, viene elusa e aggirata la finalità di una disposizione, asservendola a uno scopo diverso da quello per il quale era stata dettata. Detta in parole semplici, l’abuso del processo si verifica quante volte, per interesse privato, viene utilizzato un istituto penal-processuale per uno scopo divergente dalla causa tipica dell’istituto medesimo.
Ebbene è ciò che avviene anche in tema di prescrizione. La parte privata, temendo di soccombere, adotta tutti i mezzi che gli offre il processo pur di raggiungere il traguardo della estinzione di un fatto costituente reato. In questi casi si sarà ancora entro il limite del non illecito; ma è certo, tuttavia, che viene lesa una esigenza di legalità processuale e si diventa autori di un subdolo e sicuro ostacolo alla speditezza dell’iter processuale. Il tutto, fino alla negazione del generale principio di lealtà e di buona fede nei rapporti tra l’individuo e lo stesso ordinamento giuridico (tra l’altro, arg. ex art. 1175 Cod. Civ.). Insomma, l’imputato che propone impugnazioni dilatorie (ahimé è specialmente questo uno strumento frequentissimo e assai dannoso), che propone eccezioni inconferenti, che pretende e ottiene rinvii infondati, che adotta linee difensive defatigatorie, che cambia difensori senza necessità nella prospettiva di far maturare una agognata prescrizione, si sarà avvalso di strumenti non illeciti – e tuttavia non riconducibili al proprio diritto di difesa – utilizzati anche a costo di creare ostacolo ad interessi di diritto obbiettivo o addirittura ad interessi costituzionali quale quello dello svolgimento di un giusto processo (art.111 Cost.).
La giurisprudenza di legittimità non è stata inerte sulla questione. Tra le altre, è tranchant la pronuncia della Corte di Cassazione a S.U. 29.9.2011 n. 155, che non può non essere richiamata in alcune sue parti: “(…) Si intende parlare (…) specificamente di abuso degli strumenti difensivi, non garanzie processuali effettive o realmente più ampie, ovvero migliori possibilità di difesa, ma una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali”. Sicché, “per chiarire quali sono i termini oggettivi che consentono di qualificare abusiva una qualsivoglia strategia processuale, civile o penale, condotta apparentemente in nome del diritto fatto valere (…) è ormai acquisita una nozione minima comune dell’abuso del processo (…) riconducibile al paradigma della utilizzazione per finalità oggettivamente non già diverse, ma collidenti rispetto all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto. Alla luce della giurisprudenza anche delle Sezioni Unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, l’abuso del processo consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all’esercizio di diritti potestativi, in una frode alla funzione (…)”. E ancora: “L’uso arbitrario trasmoda poi in patologia processuale, dunque in abuso, quando l’arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo e il solo scopo è la difesa dal processo, non nel processo: in contrasto e a pregiudizio dell’interesse obbiettivo dell’ordinamento e di ciascuna parte a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli”.
Dev’essere ferma l’opinione che voler contraddire questi concetti vuol dire far prevalere interessi eticamente smodati e di parte, che non hanno nulla a che vedere con gli interessi della giustizia e con quelli dell’ordinamento sociale, dei quali la norma deve invece prendersi cura!
Il secondo punto non merita che poche parole, se si pone attenzione a quanto ora detto: esperienza insegna che i ritardi nella conclusione dei processi sono dovuti frequentemente proprio alle pratiche dilatorie degli imputati o di altre parti private. Altro che ritardi da “blocco” della prescrizione! Sicché quella che non è condivisibile è la ripetuta – opposta – affermazione secondo cui il “blocco” della prescrizione allungherebbe ulteriormente i tempi dei processi: una affermazione non solo apodittica, priva di ogni dimostrazione, ma addirittura contraria alla realtà delle cose nelle frequentissime ipotesi denunciate in Cassazione e nelle relazioni annuali di Presidenti di Corte di Appello e di Procuratori Generali!
Il terzo punto sarebbe degno di una articolata e diffusa esposizione. Ma in questa sede, non può che farsene un sintetico e inorganico accenno, visto che l’argomento coinvolge l’intera impalcatura del processo penale.
È da premettere un dato, apparentemente ovvio: in tanto è controversa la questione sulla prescrizione, in quanto il processo penale è lento; se il sistema processuale fosse più efficiente, la prescrizione dei reati non sarebbe più di attualità.
Il problema dei problemi, quindi, è quello di ricercare i rimedi idonei ad accelerare gli istituti processuali.
È ormai da decenni che nelle relazioni annuali dei Presidenti di Corte di Cassazione e di Appello e dei Procuratori Generali vengono proposti significativi rimedi alle vere e proprie incongruenze del processo penale. Qualche cosa si è fatto nel corso degli anni. Tuttavia non è bastato: le riforme devono essere coraggiose. Sia consentito dire che non basta spolverare sulle norme, invece occorre incidere decisamente sul complessivo sistema processuale.
È proprio di questi giorni la proposizione di un disegno di legge governativo che, negli articoli dal 13 al 22, detta regole sul codice di procedura penale: un articolato commento su di esso non è consentito in questa sede. Certo, come era prevedibile, non pare che contenga alcuna proposta di riforme “epocali”; qualche cosa di utile contiene, ma esse non sono sufficienti; e altre cose appaiono decisamente non condivisibili, come la imposizione di termini perentori alle indagini preliminari (una decisione che sembra limitare la autonomia di funzione del Pubblico Ministero), ovvero la “ineleganza” o la “ingenerosità” della disposizione che prevede sanzioni a carico dei magistrati ritardatari (come se il ritardo nel deposito di qualche atto fosse causa delle inefficienze del sistema!).
Una prima lettura di questo disegno, inoltre, conduce a ritenere niente affatto condivisibile il “blocco” della prescrizione limitatamente al caso di condanna dell’imputato, mentre la prescrizione continuerà a decorrere nei casi di assoluzione: sembra ravvisarsene un palese vulnus al principio della parità tra le parti private.
Suscita, poi, notevole perplessità la introduzione di un criterio di selezione delle notizie di reato attribuendone priorità a seconda della rilevanza di un fatto ritenuta tale dal Procuratore della Repubblica: è vero che il criterio non viene ad affievolire il principio di obbligatorietà dell’azione penale, tuttavia esso può dar luogo a incertezze, a confusioni e a ipotetiche carenze di obbiettività a svantaggio degli interessi di una delle parti private.
Restano irrisolte le riforme più significative, attinenti alla struttura stessa del sistema processuale. Una evenienza, questa, purtroppo già prevista.
In doverosa sintesi, risulta che in più sedi istituzionali, e ripetutamente, è stato sostenuto che occorre necessariamente prevedere una decisa depenalizzazione. Al contrario, è stata una tendenza politica quella di utilizzare le negatività sociali ed economiche, attribuendo connotati di reato a fatti anche di scadente disvalore, ma così espandendo la funzione del giudice e moltiplicando reati e processi. Il tale fenomeno è assolutamente da contenere, anzi da ridurre. Ma ridurre i reati e i processi non vuol dire rendere lecito ciò che è oggettivamente illecito, vuol dire modificare la sanzione; non più una pena, né un giudice e un processo, ma una efficiente autorità amministrativa che abbia potere di infliggere sanzioni idonee a incidere, specialmente e decisamente, sui patrimoni.
Nelle stesse sedi, è stato sottolineato il fatto che la funzione dell’indagine preliminare è quella di raccogliere gli elementi sufficienti per un successivo giudizio (e in questo il disegno di legge pare concordare); tuttavia nel nostro sistema la valutazione degli elementi di prova è sovente rigida e pedante. Partendo da tale dato, si riscontrano, in questa fase, una serie di veri e propri mini-processi, una serie di interventi del giudice perché risolva impugnazioni incidentali o ricorsi o reclami o pretese di inutilizzabilità, che male si conciliano con la osservanza dei termini temporali invece previsti per la fase. Si prenda l’istituto di applicazione delle misure cautelari: esso è un vero e proprio giudizio autonomo infilato in questa fase. Basta pensare all’esempio di una richiesta di custodia cautelare, al conseguente provvedimento del GIP e poi ai reclami, o agli appelli davanti al Tribunale del Riesame, e ai fatali conseguenti ricorsi per Cassazione per convincersene. E tutto questo, con adempimenti molteplici: avvisi, notifiche, trasporti di fascicoli voluminosi da un ufficio all’altro; e valutazioni nel merito che penetrano nel fatto come se si trattasse di un vero e proprio giudizio anticipato. Tutta una serie di incongruenze, capaci di produrre effetti perversi e addirittura contraddittori e lesivi del segreto di indagine: se infatti è vero che il p.m. deve trasmettere ai Tribunali, ai sensi dell’art. 291 c.p.p., tutti gli atti “su cui si fonda la richiesta di misura”, sarà conseguentemente vero che gli atti di indagine diventano pubblici, a disposizione, in caso di processi con più indagati, di coloro nei cui confronti non si sono assunte ancora iniziative (oltreché, naturalmente, degli organi di stampa!). Ebbene, rimedi sono certamente possibili: ad esempio, è un rimedio auspicabile quello della costituzione di un Tribunale collegiale per le misure cautelari, le cui decisioni siano ricorribili solo per Cassazione e per rigorosi motivi di legittimità sostanziale; ciò che, a tacer d’altro, oltre a eliminare un ipergarantismo di maniera lesivo del segreto di indagine, ridurrebbe i faticosi e molteplici adempimenti di cancelleria, il trasporto di voluminosi fascicoli cartacei da un ufficio all’altro, ecc.
E ancora: è da decenni che viene segnalata la necessità di riformare coraggiosamente l’istituto dell’appello. Non certo le pavide insufficienti modifiche proposte nell’ultimo disegno di legge, proprio incapaci di apportare rimedi efficaci. La proposta, proveniente da più sedi e ancora nelle relazioni annuali delle Corti, è quella – veramente significativa – della introduzione del principio di reformatio in peius. Vi è, purtroppo, un eccesso di appelli penali, moltissimi proposti per mere ragioni dilatorie. Simile evenienza sarebbe decisamente e definitivamente eliminata se venisse disposto che le corti di appello possono aumentare le pene del primo grado: un rimedio né originale, né astruso se è vero che è già previsto e attuato in Europa, ad esempio, in Olanda e in Francia.
E ancora: che senso ha ammettere l’appello dell’imputato anche nel caso in cui abbia patteggiato la pena con il consenso del p.m.?
E inoltre, serie modifiche si impongono per il ricorso in Cassazione. Sono ben possibili, in moltissimi casi, una limitazione dei motivi di ricorso ai soli vizi di legittimità sostanziale, o il contenimento dei motivi di ricorso, quando dietro ad essi si annidano pretese di merito, così come spesso accade per i casi di motivi fondati sulla insufficienza della motivazione (ancora una volta dovuti a mere finalità dilatorie).
E infine, lo strumento idoneo per il contenimento dei ricorsi, come d’altra parte degli appelli, potrà essere quello della istituzione del giudice funzionalmente delegato al rigoroso preesame della ammissibilità dei motivi di impugnazione.
Tornando, in conclusione, alla questione principale del ‘blocco’ della prescrizione, c’è in definitiva da chiedersi se è più eticamente iniquo e giuridicamente inaccettabile il caso di un delitto per avventura giudicato con ritardo, o il caso di un delitto che ‘non viene mai’ giudicato perché muore, o addirittura fatto morire prima di essere giudicato. E inoltre: perché mai legge considera imprescrittibile un rilevante numero fra i più gravi delitti? Anche in questi casi la legge sarebbe scandalosa o, come qualcuno pure sostiene, costituzionalmente illegittima?