Quasi nove anni fa, un gruppo di giovani di una piccola provincia tunisina, Sidi Bouzid, scese in piazza, in solidarietà con il drammatico gesto di un venditore ambulante di frutta. Mohamed Bouazizi si era dato fuoco per protestare contro le continue vessazioni delle autorità locali di cui era stato vittima, culminate nel ritiro della sua licenza di vendita. Quando, dopo due settimane di agonia in ospedale, il giovane morì, le proteste si erano diffuse in tutto il paese, sino a rovesciare il regime guidato dal Presidente Zine Ben Ali, che aveva dominato la vita politica della Tunisia dal 1987.
Il mondo fu colto di sorpresa. Pochi avrebbero immaginato il crollo immediato di un regime autoritario, fino a poco tempo prima considerato inamovibile. Ancora di meno furono coloro che predissero le convulsioni politiche che avrebbero scosso il Medio Oriente negli anni che seguirono, portando la caduta di alcune senili autocrazie, la guerra in altri casi ed una attivistica ansia controrivoluzionaria in altri ancora. Da quel momento in poi, il Medio Oriente non sarebbe stato più lo stesso.
Non tutti però furono sorpresi. Nel 2002, un rapporto delle Nazioni Unite (Arab Human Development Report, AHDR) per la prima volta aveva suonato l’allarme sullo stato di generale decrepitudine del mondo arabo, che continuava a mostrare segni di pertinace arretratezza. Inusualmente franco, il rapporto non si limitava ad esprimere preoccupazione per lo stato di sofferenza socio-economica della regione, ma indicava anche le cause strutturali che soffocavano il potenziale di sviluppo umano del mondo arabo. Queste cause venivano riassunte in tre deficit: mancanza di democrazia, marginalizzazione delle donne, deboli ed obsoleti sistemi di istruzione.
Fondamentalmente, le proteste popolari che hanno incendiato la regione nell’ultimo decennio sono originate dalle incessanti umiliazioni subite da ordinari cittadini, alienati dalla brutalità di governi non-rappresentativi. Milioni di persone sono scese in piazza domandando migliori opportunità di partecipazione alla vita politica del paese, la fine dell’endemica corruzione, il libero accesso alla vita economica paralizzata da obsolete burocrazie ed il rispetto di fondamentali diritti umani.
In molti casi le speranze di progresso politico e riforme economiche non si sono realizzate. L’iniziale euforia si è presto spenta in una ondata di restaurazioni autoritarie o di guerre, queste ultime alimentate da ingerenze regionali ed internazionali. Alle irrealistiche aspettative di rapido progresso democratico, si è infine sostituito il gelo della restaurazione.
I sistemi politici del mondo arabo, continuano ad essere dominati da caste che sfruttano il paese e le sue risorse. In termini generali questi sistemi appartengono a due classi: la prima è relativa a famiglie di natura tribale, che regnano in un regime monarchico di genere assolutistico; la seconda corrisponde agli apparati burocratico-militari di sicurezza, che gestiscono le risorse dello Stato in maniera egualmente assolutistica, ma sotto le apparenze di uno Stato repubblicano di tipo neo-patrimoniale.
In Egitto ed in Tunisia, l’apparato statale è stato efficientemente tempestivo nell’eliminare il cuore dell’elite governativa che rischiava di divenire un pericoloso imbarazzo. Siria e Libia sono state rapidamente incendiate da rovinose guerre civili: in molti paesi del mondo arabo le classi dominanti usano le loro milizie pretoriane per eliminare il dissenso, se necessario con sistemi sanguinari.
In Bahrein l’intervento del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council, GCC) ha agito con tempestiva fermezza per scoraggiare un movimento popolare che mostrava segni di rapida espansione. In Yemen la rivolta del 2011 aveva prodotto un accordo di divisione politica che si è presto trasformato in una nuova guerra, guidata principalmente da potenti ed avventuristiche influenze esterne. Più recentemente, in Algeria e Sudan, i rispettivi regimi militari hanno cercato di contenere la rivolta popolare, sacrificando il presidente in un tentativo di finzione democratica a sostegno della rivolta popolare. Il 2 aprile 2019 il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika è costretto alle dimissioni; l’11 aprile la stessa sorte tocca al suo omologo Omar al-Bashir in Sudan, che viene deposto ed arrestato.
Tali sviluppi politici sono equivalenti alla decisione del sistema militare egiziano che nel febbraio 2011 annunciò le “dimissioni” di Mubarak, una riuscita operazione di maquillage politico che eliminò l’espressione più visibile del governo per proteggerne il fulcro decisionale. Come in Egitto, le forze armate algerine e sudanesi hanno sacrificato la clique di potere intorno al presidente e le istituzioni più esplicitamente compromesse dagli abusi di regimi corrotti e fraudolenti.
In entrambi questi paesi, i movimenti popolari sembra abbiano imparato dalle esperienze in Egitto e non sono caduti nelle trappole militari. Il movimento popolare infatti continua a richiedere, manifestando con sistemi pacifici (nonostante le violenti repressioni), la costituzione di un sistema politico genuinamente civile, governato da regole democratiche.
Le primavere arabe sono state spesso definite come post-moderne proprio perché sono sembrate prive di leadership coesa. In realtà nessuna vera rivoluzione può durare in assenza protratta di uniforme guida politica. Anche i movimenti spontanei di rivolta popolare devono infine coalescere intorno ad una leadership chiara per evolversi in movimenti di ricostruzione politica e quindi persistere oltre l’iniziale spinta rivoluzionaria.
La Turchia ed il Qatar sono presto riusciti a coagulare sotto il loro controllo la prima ondata delle primavere arabe (con la eccezione delle rivolte in Bahrain), principalmente attraverso il loro sostegno al movimento dei fratelli mussulmani. È importante riconoscere che i fratelli mussulmani in nessun caso possono essere considerati come gli iniziatori delle rivolte: sono stati semplicemente la forza più logisticamente capace di sfruttare le debolezze degli spontanei movimenti rivoluzionari, per assumerne quindi la leadership. Certo i fratelli mussulmani ed i loro alleati erano di già presenti in Egitto ed in Yemen: ma da una parte il forte sostegno politico e finanziario di Turchia e Qatar, dall’altra le iniziali incongruenze del movimento rivoluzionario giovanile, hanno consentito ai fratelli mussulmani di impadronirsi di un movimento fondamentalmente secolare, mutandone identità ideologica e corso politico a loro favore.
A causa della debolezza generale dei movimenti di opposizione liberali o di sinistra nel mondo arabo, che sono stati privati di sostegno esterno e sfiniti da continue repressioni, l’influenza regionale dei fratelli mussulmani e di altri gruppi a loro affiliati, ha raggiunto il suo picco negli anni 2011-2012. In Tunisia e in Egitto hanno partecipato alle elezioni dopo un brevissimo periodo di transizione, impadronendosi del potere in entrambi i paesi. In Marocco la monarchia è riuscita (sino ad ora) a prevenire rivolte destabilizzanti, astutamente cooptando al potere la versione Marocchina dei fratelli mussulmani.
Le dinamiche che hanno fatto seguito alle iniziali primavere arabe possono essere meglio comprese se osservate anche da un angolo politico-organizzativo. Le forze democratiche, dai liberali (secolari che mussulmani) ai movimenti di estrema sinistra, che hanno espresso la grande maggioranza delle aspirazioni dei movimenti popolari, non sono mai riusciti ad organizzare se stesse in coalizioni funzionali. Egualmente, non sono neanche riuscite a proiettarsi come convincenti alternative di governo ai due campi reazionari, ovvero: i sostenitori dei regimi reazionari e i loro rivali dei fratelli mussulmani.
Nella sua fondamentale eterogeneità, la storia moderna dei paesi arabi è caratterizzata da alcuni persistenti fattori, in particolare quattro, che spiegano come le primavere non siano state né fenomeni temporanei, né episodi circoscritti. Piuttosto, espressioni di un ciclo storico epocale destinato a protrarsi per anni, forse generazioni a venire.
Il primo fattore è l’assenza di un genuino contratto sociale in quasi ogni stato arabo contemporaneo. Una delle caratteristiche dello stato redditiere è la spoliazione degli cittadini (arabi, in questo caso) dalla loro propria cittadinanza. Ovvero di quella coscienza individuale di cittadinanza che si identifica nello Stato e che affonda le radici nella chiara definizione dei diritti e dei doveri di ogni membro della società. Tra questi doveri c’è quello di pagare le tasse. Tra i diritti, c’è quello di esigere in ritorno trasparenza e professionalità da parte di chi è eletto a gestire il capitale pubblico. Questo consente al cittadino il diritto di non rieleggere coloro che non si sono dimostrati capaci di gestire le risorse pubbliche con onestà morale e perizia professionale. Nello stato redditiere, il governo priva il cittadino del diritto di eleggere una classe dirigente attraverso elezioni trasparenti. Lo stato redditiere (politicamente autoritario) decide come meglio crede di gestire le risorse pubbliche (generalmente petrolio, gas, o altro che apparterrebbe a tutti i cittadini), offrendo servizi sub-ottimali, in cambio richiedendo ai cittadini di rinunciare ad avere voce nella gestione degli affari pubblici del paese. Primo dei quali, le elezioni democratiche. Il principio di un genuino contratto sociale è il fondamento di ogni moderno stato di diritto guidato da principi democratici. Nel mondo arabo, l’assenza di autentici contratti sociali che favoriscano lo sviluppo umano dei cittadini è forse la causa più significativa delle crisi che continuano a corrodere la regione.
Il secondo fattore è la predisposizione delle classi militari ad impadronirsi del governo e dell’economia e – nella maggioranza dei casi – ridurla in decrepitudine, allo stesso tempo alimentando il profitto delle elite (militari, naturalmente). È il caso dell’Egitto, il cui governo è dominato dagli anni 50 da un sistema poliziesco/militare, che nella sua più recente incarnazione ha raggiunto livelli di repressione inconsueti, anche per un paese testimone di generazioni di governi militari.
Il terzo fattore è offerto da una significativa dimensione simbolica dei fratelli mussulmani che hanno costantemente guidato due aspetti critici (ma falliti ) della vita politica araba dagli anni 30: l’aspirazione ad un governo giusto in opposizione ai sistemi autocratici, ed anche ad interferenze post-coloniali. Nel mondo arabo, i fratelli mussulmani hanno dimostrato di essere il movimento più longevo nel perseguire l’obbiettivo di liberazione dalle autocrazie monarchiche o poliziesco/militari. L’ascesa al potere in Tunisia ed in Egitto ha mostrato i limiti dei fratelli mussulmani come forza di governo, dove il movimento ha ripetutamente fallito nel raggiungere anche una modica parte degli obbiettivi promessi, rapidamente vanificando il consenso guadagnato con le elezioni.
Il quarto fattore è costituito dalle ondate di neo-autoritarianismo regressivo in reazione ai movimenti popolari di ispirazione democratica. In Libia, Yemen, Siria, Bahrain, in misure diverse si sono a lungo rappresentate le agonie del mondo arabo che continua ad insistere nella ricerca di una vita politica ispirata da principi di dignità, libertà, giustizia ed egualitarismo. Una ricerca soffocata dalla reazione repressiva dell’apparato poliziesco nazionale o dalle interferenze di potenti monarchie arabe istintivamente spaventate dal vento della democrazia. Reazioni spesso tacitamente approvate (quando non incoraggiate) anche dal mondo occidentale.
Affrontando formidabili ostacoli, le nuove generazioni stanno guadagnando tempo per costruire istituzioni modernamente capaci di sostenere governi civili, secolari, democratici, guidati da politiche progressiste.
Avremo anche noi il coraggio di essere finalmente al loro fianco?