Intervista a Nicola Fratoianni

Più Europa, o meno Europa?
Più Europa, ma una diversa Europa. Non è questione prima di tutto di quantità, ma di qualità dell’Unione Europea. Infatti, in questi anni ad agire pesantemente sulla vita quotidiana della maggior parte degli europei è stata la pessima qualità delle politiche di austerity: nel sociale, nel lavoro, nell’immigrazione. Il risultato? La crisi nel Continente ha messo radici profonde, che dall’economia si sono diramate fin dentro le coscienze dei cittadini, alimentando paura e solitudine, rancore e impotenza. Quelle politiche sono il terreno di cultura di populismi e xenofobie, fino a forme insorgenti di razzismo diffuso. Ricordo che cinque anni fa un paese come la Grecia, governata dal leader di Sinistra Tsipras, ha sfidato quelle politiche nel nome appunto di più Europa, ma di una diversa Europa, e noi con lui. Le classi dirigenti di allora, dal Fondo Monetario ai capi di governo come Merkel e al Presidente della Commissione Europea di allora Juncker, hanno fatto di quel paese il laboratorio di esperimenti sociali che hanno umiliato e impoverito un popolo intero. Recentemente hanno riconosciuto l’errore. Ma quelle ferite sociali e umane restano vive.

L’esito del referendum sulla Brexit ed il conseguente caos che ha portato in Gran Bretagna e non solo, potrebbe dire più Europa.
Non va dimenticato che la responsabilità della Brexit è dei conservatori inglesi, e del loro leader di allora, Cameron, non a caso oggi considerato in Gran Bretagna come uno dei peggiori governanti della storia contemporanea del Regno. Ha usato l’Europa per regolare i conti dentro al proprio partito, sbagliando clamorosamente i suoi stessi calcoli. La Brexit è la più grave crisi politica in Europa degli ultimi decenni. Miopia dei governi, calcoli egoistici di questo o quel paese, volontà di predominio di alcuni paesi su altri, smembrano l’Europa anziché strutturarla; e danno fiato al vento xenofobo e autoritario. Torno a dire che “più Europa” trova la sua ragione in politiche del tutto alternative a quelle fin qui praticate. La Sinistra è questa alternativa. Perché coltiva e propone un’idea di Europa fondata su quelle Costituzioni democratiche, come la nostra, nelle quali l’idea di welfare, del lavoro come valore, dell’istruzione, del sapere e della salute come bene pubblico, sono poste a fondamento della coesione europea.

I vincoli, per lo più economici, imposti dall’Unione Europea, secondo alcuni aumentano l’austerity e non favoriscono la crescita. Di contro, altri sostengono che il loro rispetto garantisce all’Italia spread contenuto e stabilità economica.
La crescita, in tempo di crisi, è il risultato di forti investimenti pubblici, non di politiche restrittive ai danni dei ceti popolari. C’è una grande lezione storica che lo dice, quella degli anni Trenta del secolo scorso. E poi, cosa diciamo quando diciamo crescita? Non può certo essere lo stesso tipo di crescita che ha tenuto in piedi un modello di sviluppo ormai esaurito: quantitativa, indistinta, dissipatrice di beni materiali e naturali concepiti erroneamente, per una pura logica di profitto, come illimitati. La crescita di cui oggi abbiamo bisogno è quella che assume in sé il concetto di limite della natura, cioè del territorio, del paesaggio, del Creato, per usare una parola cara a Papa Francesco. Siamo ormai al punto limite, e la buona politica è quella che sa vederlo e dirlo, con responsabilità e coraggio. Questo vuol dire mettere in campo una nuova idea di crescita: qualcosa cresce: ed è la qualità del territorio, la salute delle persone, l’azione di cura, il lavoro giustamente remunerato, la qualità dell’aria, dell’acqua, del cibo, ad esempio. E qualcosa al tempo stesso smette di crescere. Ed è il consumo di suolo, la produzione di armi, la condizione di precarietà nel lavoro. In quanto alla stabilità economica dell’Italia, dove la si vede? È da conservare quella stabilità che fa prospero un Paese, non certo quella che ha i salari fermi da trent’anni, gli insegnanti peggio pagati d’Europa, la disoccupazione giovanile e femminile più alta. La stabilità economica è un punto di arrivo, e per raggiungerlo occorrono politiche sociali che siano l’esatto opposto dell’austerity: investimenti pubblici, qualità della crescita, centralità del lavoro, riqualificazione del welfare, strategie verso quella risorsa oggi lasciata a se stessa che è il Mezzogiorno d’Italia.

L’Europa dei burocrati, o l’Europa dei popoli? Comunque un’Europa diversa.
Negli ultimi anni si è sviluppata in Europa una lotta a tutto ciò che è establishment, contrapponendogli la volontà popolare. La critica all’establishment è legittimata dai fatti, dall’inettitudine di classi dirigenti, dalla politica come dall’economia. L’establishment europeo nel tempo della crisi ha responsabilità non contingenti, bensì storiche. Il popolo, d’altra parte, è stato visto come entità indistinta, omogenea, compatta, depositario di una verità assoluta. Cos’è allora un’Europa diversa? È un’Europa governata dalla politica, non dall’economia dei mercati e dalla finanza speculativa della moneta. Mercato e moneta senza una politica che li governi non costruiscono nessuna identità europea. E infatti la disgregazione è sotto gli occhi di tutti. Ha generato diseguaglianze, povertà, chiusure e nuovi muri. E la politica, nella propria azione e responsabilità di governo, è quella che risponde democraticamente al popolo; dall’altra parte essa ha bisogno della burocrazia, non esiste società che ne possa farne a meno. Ma il processo di costruzione di una diversa Europa non è genericamente del popolo, ancor meno dei burocrati di turno. È della politica, della rappresentanza democratica e popolare.

Si può dire che i rapporti di forza all’interno dell’Unione Europea sono sbilanciati con una Germania egemone, una Francia alla quale tutto o quasi è concesso, mentre l’Italia resta l’osservata speciale?
Questo è il quadro di oggi. Ed è il frutto di due processi diversi. Quello originario di come è storicamente nata l’Unione. Già allora le realtà di partenza erano assai diverse, con l’asse franco-tedesco predominante che ha ipotecato in parte il futuro. Ad acuire questo squilibrio è stato poi il modo in cui i principali paesi sono andati incontro alla crisi del 2008. Spesso trascuriamo che la crisi economica e sociale dell’Italia precede quella del 2008. Già all’inizio degli anni Novanta nel nostro Paese viene messa in atto una gigantesca dismissione delle industrie che avevano contribuito – attraverso il fondamentale contributo dei lavoratori – a far diventare l’economia italiana la quarta al mondo. Parlo non solo dell’industria metallurgica e metalmeccanica, ma di quella siderurgica, chimica, informatica, farmaceutica. Più ancora che di dismissione, occorre parlare di vera e propria svendita del patrimonio pubblico, frutto del lavoro e delle lotte di intere generazioni, azzerato nel volgere di pochi anni. Siamo oggi quello che resta degli errori politici di ieri. Dopo i quali abbiamo vissuto il berlusconismo, l’imprenditore al comando del Paese che lo discredita sulla scena europea, e apre la strada ai tecnici esecutori fedeli dei burocrati di Bruxelles. Bisogna guardare meglio anche alle nostre responsabilità politiche nel corso del tempo. La credibilità non è quella che ci concedono gli altri partners, bensì quella che ci conquistiamo con la nostra azione politica.

Per l’Italia sono solo elezioni europee, o anche politiche, quale primo test del governo 5 Stelle-Lega dopo un anno di vita?
Si sta affermando in Italia una tendenza negativa: quella di una politica che è permanentemente in campagna elettorale. Ora è il turno di Salvini, ma lo è stato a suo modo di Renzi. Qui si determina lo spessore di un leader che si candida al governo del Paese. C’è un tempo per conquistare i voti, ma poi deve venire quello per fare le cose, a partire da un progetto da realizzare, non sulla base dell’andamento quotidiano dei sondaggi. Questa strada porta ad ottenere il consenso per poi usarlo non come trasformazione dell’esistente, ma come pura occupazione di potere. Il rischio è che le elezioni guardino più che a Bruxelles all’Italia, e peggio ancora, agli equilibri interni tra le due forze ora al governo.

Con il sistema proporzionale di voto, si contano le forze in campo. Chi è in crescita nei sondaggi rischia e teme di non crescere abbastanza per concretizzare cambiamenti e nuove alleanze. Chi è in calo ha già fissato soglie di salvaguardia / successo del proprio movimento, per mantenere lo status quo delle alleanze. Gli altri partiti galleggiano. Il quadro politico nazionale rimarrà immutato nel post elezioni?
Il voto peserà sul quadro nazionale. Il dato politico italiano è quello, da tempo, di una forte instabilità, di un continuo ricomporsi e scomporsi di partiti e famiglie politiche. In parte per quell’ interregno di cui parla Gramsci: è così, quando il vecchio muore e il nuovo ancora non nasce. E in parte per i calcoli di bottega di chi fa politica sul terreno dei posizionamenti, delle alleanze pur di andare al potere, prescindendo del tutto dal merito di un progetto su cui costruire la propria politica, e a partire da quella cercare convergenze e compromessi utili. Nei prossimi cinque anni l’agenda europea avrà da affrontare questioni strategiche: politiche migratorie, intelligenza artificiale, per non dire delle questioni sociali che affliggono ormai anche le realtà considerate più solide dell’Unione. E l’incognita Brexit, che riguarda il Regno Unito come l’Europa intera. Vogliamo parlare di questo, dire su ciascun punto dell’agenda qual è la nostra politica, dove siamo disponibili a convergenze e con chi, e dove non possiamo venir meno ai nostri valori di riferimento?

Tre cose da cambiare e tre cose da difendere nell’attuale, complesso sistema di regole dell’Unione Europea.
Le cose da cambiare sono ben più di quelle da conservare. Serve una visione strategica, non ordinaria, del processo europeo, senza la quale cambiare è impossibile e conservare inutile. La “complessità” del sistema di regole accresce il ruolo tecnico della burocrazia di Bruxelles e allontana i cittadini dalla comprensione dei reali meccanismi operativi e decisionali. Il sistema va semplificato. E il metro di misura è in ogni caso la sua procedura pienamente democratica. Va difeso il ruolo del Parlamento Europeo, ma occorre accrescerne la centralità, migliorarne l’efficienza. Va cambiato come primo atto insieme concreto e simbolico quel patto di bilancio europeo, il Fiscal Compact, che mettendo la stabilità di bilancio come pilastro della politica dell’Unione, capovolge nel suo contrario ogni idea di Europa dei popoli, dell’equità sociale, della coesione. Istituirlo ha voluto dire assumere le politiche di austerity come le sole possibili; escludendo ogni alternativa, che avrebbe comportato il default di chi l’avesse praticata. Ciò ha fatto arretrare l’Europa nel contesto mondiale, e considero un grave errore politico che l’Italia, con il sostegno determinante del PD, abbia modificato l’articolo 81 della nostra Costituzione, per adeguarsi ad una misura che ha provocato aumento delle povertà, esclusione sociale, crescita delle diseguaglianze. Ognuno è capace di tenere i conti in ordine mettendo ceti sociali nel lastrico. E questo è accaduto. La Sinistra propone una politica alternativa, perché i conti si possono tenere sotto controllo con una forte redistribuzione interna.

Il rapporto deficit/Pil e il tetto del 3% è ancora attuale? Guy Abeille, funzionario francese generalmente riconosciuto come il padre del 3%, in una sua pubblicazione ha ammesso che la regola del 3% è nata senza alcuna riflessione teorica.
Di riflessione teorica se n’è vista assai poca. Gli stessi pentimenti sono avvenuti in totale assenza di riparazioni: di indirizzo politico, di risarcimento ai danneggiati, di dimissioni dei diretti responsabili. L’unica riflessione teorica che mi viene in mente riguarda l’atteggiamento di costoro verso le nuove generazioni, ed è una riflessione “marxista” che nel corso della crisi si è chiesta: Perché preoccuparsi delle nuove generazioni? Cosa hanno fatto esse per noi? È Marx. Non Karl, purtroppo, ma Graucho.

Proposte in sede europea per aiutare il Made in Italy?
Il Made in Italyè un insieme assai differente di prodotti, dall’agricoltura alla moda, per dirne dei maggiori. Occorre esaminare il comparto nelle singole specificità. In ciascuna di esse vi è creatività e innovazione, due caratteristiche che vanno aiutate in sede europea. Ma proprio per questo il Made in Italy va tolto a una concezione di ideazione e di prodotti italiani da contrapporre a quella di altri paesi. Sarebbe una scelta perdente. Occorrono invece politiche di salvaguardia della specificità italiana da mettere in sinergia virtuosa con i consumi e i mercati di altre realtà. Così come va considerata la qualità dei lavoratori di questo comparto, a partire dalla tutela piena di diritti da estendere. 

Roberto Serrentino

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