Intervista a Mario Palazzi

Dott. Mario Palazzi, si è appena concluso un convegno su corruzione, appalti e amministrazione pubblica, nel quale lei è intervenuto insieme a Gabriele Buia, Presidente dell’ACER (Associazione Nazionale Costruttori Edili), Paola Severino, già Ministro della Giustizia, Sabino Cassese, Giudice emerito della Corte Costituzionale e altri relatori. 
Pubblico Ministero della Procura di Roma, impegnato in numerose inchieste contro la criminalità organizzata, quali sono dal suo osservatorio le principali storture della nostra giustizia penale?
Analizzando la crisi della giustizia penale, sintetizzerei le direttrici principali, muovendo dalla mia esperienza, individuando tre deficit costanti e storture:

  1. l’intellegibilità delle norme;
  2. la piena assunzione di responsabilità degli stakeholders;
  3. il facile e demagogico rifugio, come dire, nel “gettare la palla” nel campo della giustizia penale (peraltro con la maliziosa consapevolezza di ingolfare un parcheggio già pieno).

L’intellegibilità delle norme, espressione che preferisco alla più comune “semplificazione”, etichetta che accompagna interventi normativi che spesso, nella loro formulazione, sono incoerenti col fine manifestato.

Negli ultimi decenni non solo l’Accademia, ma lo stesso diritto positivo ha tentato, con incerto successo, di migliorare la qualità della legge.

L’inutile complessità, la caotica sovrapposizione di fonti normative costruisce il primo presupposto per neghittosità dell’amministratore o, peggio, per la scusa maliziosa di una stasi che può essere vinta solo con una sollecitazione, un presente – diamo brutalmente il nome alle cose – con una tangente.

Qui viene in campo, prepotentemente, la politica ed i modi con i quali le regole vengono approvate; eppure gli strumenti non mancano:

penso alle funzioni del “Comitato per la legislazione” presente alla Camera dei Deputati oramai da oltre venti anni, oppure al ruolo che può svolgere l’AIR (Analisi di impatto della regolazione) e l’ATN (Analisi tecnico-normativa) negli atti normativi del Governo.

Ad onta di ciò i risultati in termini di qualità sono piuttosto modesti, la legislazione è perennemente “emergenziale”, il decreto legge è la norma e non l’eccezione; il recente decreto “semplificazione” è stato il più plastico degli epiloghi: solo grazie alla saggezza istituzionale del Quirinale si è evitato un incredibile patchwork.

Norme intellegibili e, a valle, procedure amministrative chiare e trasparenti, sono il primo usbergo al malaffare.

E per quanto riguarda la seconda stortura, cioè l’assunzione di responsabilità da parte degli stakeholders?
Non ho timore della discrezionalità amministrativa, quando essa è esercitata in modo chiaro e trasparente. È una illusione pensare di assicurare il buon governo imbrigliandola in una ipertrofia di parametri.

A mio avviso la pubblica amministrazione deve riacquistare l’orgoglio e la consapevolezza del suo ruolo istituzionale, le straordinarie professionalità che pure vi sono devono poter essere valorizzate, così come deve farsi un uso non abulico ma effettivo del sistema disciplinare.

Su quest’ultimo punto sicuramente un plauso deve essere fatto (pur con qualche criticità residua) alla novella del d.lgs. n.75 del 2017, con l’intento di snellire l’iter procedimentale, di favorire la specializzazione punitiva e di attenuare i rischi di annullamenti delle sanzioni per vizi meramente formali.

Particolarmente importante è stata la scelta di centralizzare l’Ufficio Procedimenti Disciplinari e di superare la pregiudiziale penale, restituendo piena autonomia a questo modello sanzionatorio.

Le Amministrazioni, però, devono avere più coraggio, la logica della mela marcia che infetta tutto il cesto non vale solo per le condotte più gravi – che coinvolgono direttamente il mio ufficio – ma anche per tutte quelle che comunque mortificano i canoni costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità di cui all’art. 97.

Il cittadino e l’impresa devono poter contare sulla capacità, ancor di più sulla volontà delle pubbliche amministrazioni, attraverso i loro dirigenti, non solo di far funzionare ragionevolmente la macchina, ma anche di “riparare” le rondelle che non funzionano, o che non vogliono funzionare.

Se questo non avviene – e spesso non è avvenuto – tutto si scarica sull’affaticato sistema giudiziario, in particolare quello penale.

Veniamo alla terza stortura della giustizia penale da lei individuata. Cosa intende per gettare la palla nel campo della giustizia penale?
Per come la vedo io, per la concezione liberale del diritto penale, la patologia che ci riguarda direttamente è quella in cui si truccano le carte (per interesse economico e non solo), cosa peraltro che avviene non di rado.

Troppo spesso, però, ci troviamo di fronte ad una patologia diversa, non di rado anticamera e “stimolo” di una più grave condotta penalmente rilevante.

Intendo riferirmi a forme di “ignavia” burocratica, un non decidere della P.A. che, ovviamente, può avere diverse cause, dal deficit di sistema – le risorse personali sono troppo spesso insufficienti – al lucido disegno criminoso (pratiche bloccate che si muovono solo dopo una pseudo “istanza di prelevamento” accompagnata da un indebito “regalino”).

Con esclusione di questo ultimo caso, infide e sistematiche corruzioni, magari di importo minimo, ma con effetti complessivi devastanti, il resto può avere sì formale rilievo penale a certe condizioni, ma raramente può trovare in questo alveo la giusta sanzione.

Quanto alla prima ipotesi lo dico chiaramente: alle indebite sollecitazioni vi è una sola risposta: denunciare. Chi non lo fa si rende complice, non importa se alieno da responsabilità penale, è correo di un sistema del quale non può più definirsi vittima.

Per il resto, ovvero abusi di ufficio ed omissioni di atti di ufficio, siamo sommersi da esposti e denunce che invocano queste fattispecie.

Sia chiaro, un numero apprezzabile di casi – abbiamo sufficiente esperienza e professionalità per coglierne la rilevanza – si appalesano da subito come condotte “spia” di fenomeni criminali più gravi e complessi: è il nostro lavoro e sappiamo quali sono gli approfondimenti possibili seppure dispendiosi in termini di tempo ed energie (follow the money è la ricetta).

La gran parte però, è costituita da istanze – sebbene legittime e comprensibili – che reclamano una leva penale, che in alcuni casi non può essere utilizzata; in altre, pure a seguito dell’accertamento dei fatti delittuosi, la soddisfazione delle ragioni della vittima spesso non è adeguata.

Per tutto questo la cassetta degli attrezzi dell’indagine penale dove massime – ed è giusto che sia così – sono le garanzie, ed il doveroso rigore nell’individuazione dell’elemento oggettivo e soprattutto di quello soggettivo (il penale è il terreno del dolo, della coscienza e volontà di commettere un reato) sono condizioni che rendono meno adatta questa forma di controllo rispetto ai piani organizzativi e disciplinari.

Però non si può trascurare come la pubblica amministrazione sia sempre più preoccupata che, nel compimento dei propri atti, possa subire contestazioni finanche di rilevanza penale, spesso anche per mera interpretazione delle norme con conseguente rallentamento, ovvero paralisi dell’attività.
È quello secondo cui l’amministrazione pubblica è ingessata perché “intimorita” dai mille controlli e invadenza della giustizia penale, è un mito da sfatare, un falso alibi.

La politica giudiziaria è improntata ad una assunzione di responsabilità e a non nasconderci dietro il mito dell’atto dovuto c’è la cautela nella formalizzazione delle iscrizioni nel registro degli indagati non come automatismo ma a seguito di un responsabile vaglio; c’è l’attenzione nell’individuazione della presunta persona offesa dal reato per evitare il circuito denuncia/richiesta ex art. 335 cpp/propalazione alla stampa della pendenza del procedimento a carico del personaggio pubblico); c’è il rigore nell’applicazione della fattispecie d’abuso d’ufficio, ad onta di un indirizzo giurisprudenziale pure autorevole, per cui coltiviamo solo ipotesi in cui sia chiara la violazione di legge o regolamento.

Tuttavia converrà con me che il punto fine di una vicenda giudiziaria lo scrive sempre il magistrato. In assenza di norme chiare e comunque soggette a fin troppe interpretazioni legulee, di fatto è il giudice che “scrive le leggi”.
Deve essere chiaro che la giustizia penale deve essere l’ultima frontiera del controllo di legalità, non certo l’unica, in una concezione di diritto penale minimo a cui credo, invocato spesso come un mantra, ma in realtà soffocata da una costante e demagogica ondata di diritto penale simbolico (una normazione cioè che – di solito accompagnata da una clausola di invarianza per la spesa pubblica – garantisce un facile consenso ma che si disinteressa della effettività della risposta).

Una giustizia penale che, quand’anche fosse messa in condizioni di funzionare in modo adeguato (le risorse materiali e di personale calano costantemente – da ultimo con la quota 100 rischiamo un ulteriore esodo dalle nostre cancellerie e segreterie, ma non mi sembra che questo interessi a qualcuno – e le regole processuali sono tali da rendere pressoché impossibile accertamenti definitivi in tempi ragionevoli), non può essere lasciata sola nel controllo della legalità.

Ultima domanda. C’è tanta gente perbene che, impegnata nella politica, nell’economia, nel sociale, nutre comunque un certo timore nei confronti della magistratura, o più correttamente dei pubblici ministeri, per un eccessivo potere in capo agli stessi.
Persone fisiche, giuridiche e associazioni possono e devono svolgere un ruolo propulsivo per le istituzioni, offrire modelli partecipati di interlocuzione e stimolare le soluzioni più ragionevoli ai problemi. In modo altrettanto convinto devono, però, isolare gli associati disonesti e denunciare le illegalità in cui gli associati per bene si imbattono.

Se vogliamo cambiare direzione a questo paese e alla insostenibile diffusività dell’illegalità, la gente perbene non ha nulla da temere e si risponde solo in un modo: con la legalità organizzata e con l’alleanza delle persone oneste.

Roberto Serrentino

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Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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