La dialettica tra cosiddetti ‘sovranisti’ e sostenitori di una maggiore integrazione sovranazionale sembra divenuta centrale nel dibattito politico e sociale di questo tempo.
Si tratta di punti di vista che, come sempre accade quando si tende a polarizzare i conflitti, paiono prestarsi a strumentalizzazioni del tutto inappropriate che fanno perdere di vista i termini delle questioni.
Siamo dinnanzi a questioni in verità molto complesse che toccano scelte decisive per il modo di organizzare lo ‘stare insieme’ della nostra comunità e che non tollerano distorsioni, mal prestandosi anche alle semplificazioni che tali distorsioni pericolosamente alimentano.
Sullo sfondo vi è un dato certo: la crisi dello Stato – costruzione concettuale che ha rappresentato ad un tempo un caposaldo ed una grande conquista del pensiero e del diritto moderno -, come lo abbiamo conosciuto dalle rivoluzioni liberali in avanti e, soprattutto, nella evoluzione ‘democratico-sociale’ del secolo XX, appare avere un che di irreversibile ed esige nuove elaborazioni e nuove progettualità.
Nondimeno, è ormai patrimonio acquisito che le Istituzioni pubbliche e private, i luoghi del potere e le regole dell’agire (anche e soprattutto economico) siano soggetti a quel controllo democratico, che si esprime prevalentemente attraverso la partecipazione elettorale, esercizio, nei modi e nei limiti dettati dalla Costituzione, della sovranità da parte del popolo cui essa appartiene.
Dunque, l’idea di sovranità è intimamente connessa con l’idea di democrazia e con lo stesso nucleo di valori costituzionali inviolabili ed immodificabili, essenza della stessa forma repubblicana.
Questo non vuol dire tuttavia che l’unica Istituzione che risponde a questi canoni sia lo Stato nazionale, nei termini sopra richiamati, considerato altresì che la stessa Costituzione consente ‘cessioni’ ‘o per meglio dire ‘limitazioni’ alla sovranità dello Stato, nell’ambito di accordi internazionali tesi a favorire integrazione, pace e sviluppo.
E che il grandioso progetto dei padri fondatori dell’Europa unita abbia recato e rechi con sé elementi di integrazione, pace e sviluppo a nessuno può venire in mente di negarlo.
Come pure, però, nessuno può negare che l’Europa di oggi non sia propriamente quel modello di partecipazione democratica dei popoli vagheggiato da De Gasperi, Adenauer e Schuman e che l’economia e la finanza globali, il grande flusso migratorio verso l’Europa e l’occidente e l’imporsi di una cultura di stampo prettamente libertario, tutta tesa al riconoscimento di diritti e alla tutela assoluta delle minoranze rendano più complesse le questioni dell’integrazione e più arduo rinvenire strumenti e livelli superiori di composizione dei conflitti che inevitabilmente quanto drammaticamente si stanno manifestando.
L’obiettivo dell’integrazione evoca, nel descritto contesto, la concezione di una società multiculturale, concezione che, nella corretta accezione, può senz’altro dirsi appartenere al patrimonio di valori della storia dell’Europa.
Il multiculturalismo, inteso come rispetto e tutela del patrimonio di valori compresenti nelle società moderne, è, come è noto, una eredità del pensiero illuminista laico che si fonda sui cosiddetti “diritti universali dell’Uomo” (libertà incomprimibili dell’individuo) come pure delle tradizioni religiose fondate sulla sacralità della persona umana, in particolare quando essa esprime valori minoritari che come tali corrono il rischio di essere sacrificati dal volere delle maggioranze.
Il pluralismo cui si ispirano tutte le costituzioni degli Stati moderni, che ereditano (anche e soprattutto in Europa) la tradizione del pensiero occidentale, si fonda proprio sulle acquisizioni di questa tradizione laica e cristiana, che ha visto in Europa, soprattutto dopo le grandi rivoluzioni liberali dei secoli XVIII e XIX, l’affermazione degli ideali di libertà ed eguaglianza ma anche la riaffermazione dei valori di solidarietà universalistica propri del cristianesimo.
Nel nostro tempo, le ragioni del multiculturalismo sono poste di fronte alle responsabilità di pervenire ad una equilibrata integrazione tra le diverse culture coniugando l’obiettivo irrinunciabile della tolleranza, valore forte del pensiero occidentale, con i tratti delle identità, le quali, lungi dal rappresentare elementi di conflitto e di disintegrazione, sono il presupposto dell’aggregazione e della partecipazione, ad ogni livello, esprimendo quella comunanza di radici e di obiettivi che crea il presupposto ideale affinché la persona trovi nella stessa partecipazione una modalità imprescindibile di sviluppo.
E che evocare le identità non debba essere avvertito come un pericolo lo testimonia la stessa recente esperienza per la quale, di fronte al disorientamento determinato dal venir meno di tanti consueti punti di riferimento, gli individui sperimentano nuovi livelli di aggregazione intorno a valori sempre meno universali.
Il pericolo identitario non a caso è denunciato sulla base di una malintesa idea di pluralismo, quella che porta a mettere tutti i valori, solo perché compresenti in una data realtà sociale in un dato momento storico, sullo stesso piano, con una visione relativistica che tradisce l’essenza stessa del pluralismo e la ragione stessa dell’integrazione.
Se pluralismo deve significare sintesi, composizione dei conflitti ad un livello sempre superiore, ciò deve pur sempre avvenire nel rispetto della gerarchia dei valori irrinunciabili, altrimenti la tutela sempre e comunque delle culture minoritarie potrebbe determinare l’eterogenesi dei fini per cui l’esasperazione di forme di presunto rispetto per il diverso rischia di fomentare il conflitto tutte le volte che la maggioranza sente messi a rischio i propri riferimenti ed avverte come ingiusto il sacrificio dei propri interessi per consentire realizzazione piena di interessi minoritari. Tutto questo appare oltretutto addirittura antidemocratico e spiega, beninteso senza giustificarle, forme anche gravi di intolleranza, particolarmente in epoche di crisi gravi nelle quali si avverte il disagio della scarsità delle risorse per sostenere l’integrazione all’interno degli obiettivi dello stato sociale.
Insomma. Il vero pluralismo, che è rispetto di tutte le identità, deve tradursi in regole di convivenza rispettose della cultura e delle tradizioni dei popoli, non in una confusa omologazione, tanto meno in un appiattimento sui modelli che dominano le reti della comunicazione, modelli notoriamente asserviti a logiche spesso insensibili ad istanze diverse dal profitto.
In questo contesto appare del tutto fuorviante affermare che le istanze alla base della opzione che si (auto)definisce sovranista rappresentino una rinata forma di nazionalismo. Il moderno sovranismo non ha niente a che vedere col nazionalismo ma è solo una velleitaria aspirazione a riaffermare quello che un tempo chiamavamo “il primato della politica”. Il paradosso di tali concezioni è, semmai, quello di non aver compreso che il primato della politica e i procedimenti di scelta democratica difficilmente possono tornare in capo agli stati nazionali, ormai del tutto sprovvisti degli strumenti per governare le dinamiche e i processi economici finanziari dai quali, per contro, sempre più spesso essi stessi vengono governati.
Al contempo, pensare che tale primato possa essere riaffermato dalle istituzioni dell’Unione Europea, di questa Unione, è un altrettanto consapevole inganno, considerato che le scelte di Bruxelles maturano troppo spesso al di fuori di un corretto controllo democratico ed appaiono sempre più frutto dei rapporti di forza tra Governi, non di rado portatori di interessi antagonisti, piuttosto che in un corretto quadro di rapporti solidali tra Stati membri.
Quel che è certo è che non ci possiamo rassegnare all’idea che l’unica struttura cui affidare la costruzione del futuro delle nostre società sia rappresentata dalla dimensione economica e che tutto il resto, a partire dal diritto, sia destinato a ridursi a sovra-struttura. Immaginare un futuro che non ci riconduca a premoderne forme di sopraffazione e di ingiustizia è dunque l’arduo compito che deve prefiggersi non soltanto la parte politica più colpita dalle contraddizioni che segnano il nostro tempo, ma tutti noi, senza pregiudizi o strumentali moralismi, affinché le giovani generazioni possano tornare protagoniste e contribuire alla costruzione del loro destino.