Tra i numerosi e gravi problemi che affliggono la nostra società e, di conseguenza, coinvolgono il Legislatore, l’attività corruttiva e la corretta gestione dei pubblici appalti certamente ne occupano una parte rilevante.
Ed è proprio dal primo accenno ai problemi che sorgono gli interrogativi. La richiesta, infatti, non solo degli operatori, ma di tutta l’opinione pubblica, attende dal Legislatore interventi all’altezza della gravità e dei pericoli che si presentano. Chiarezza interpretativa e semplicità applicativa sono requisiti che dovrebbero esser sempre concretamente realizzati nella promulgazione delle leggi; a maggior ragione se riferita ad attività, la cui portata coinvolge l’essenza stessa del tessuto sociale. La corruzione, infatti, con la sua capacità e pericolosità espansiva e di coinvolgimento, giunge ad inquinare ogni attività, pubblica e privata che sia, alterando, non solo il principio costituzionale della parità dei cittadini di fronte alla legge (art 3 Cost.) ma anche l’esercizio degli ulteriori diritti a loro egualmente riconosciuti.
La dimostrazione di tale pericolosità è confermata dal settore dei pubblici appalti, la cui realizzazione rappresenta uno dei canali più usati dalle attività corruttive e più frequentemente adottati dalla criminalità organizzata. Il loro espletamento, così realizzato, comporta ulteriormente la disgregazione delle regole dell’economia, del commercio, della salute pubblica e della sicurezza dei cittadini. Dinanzi a tale quadro, dunque, appare necessario richiedere al Legislatore quei requisiti delle leggi, più volte invocati anche attraverso autorevoli pronunce giurisprudenziali.
Le riflessioni, che scaturiscono dall’invito e dall’aspettativa rivolta al Legislatore, muovono dalla sostanziale ed iniziale configurazione della corruzione.
È utile infatti porre in risalto che il crimine in questione, in concreto, costituisce un contratto illecito.
La definizione, come contratto, serve a far giustizia di quelle tesi che conducono ad interpretazioni orientate a giustificare, o benevolmente motivare, la condotta del corrotto in quanto suggerite dalla generale motivazione del “così fan tutti”. Per contro, va invece ribadito che il fatto criminoso muove dall’incontro e la combinazione tra due o più volontà, dirette a raggiungere, mediante lo scambio di denaro o altra utilità con azioni e comportamenti del pubblico ufficiale, risultati solo apparentemente leciti.
Ed è proprio la sostanziale ambiguità dei risultati conseguiti ad offrire una prima dimostrazione dell’estrema pericolosità della corruzione. Ciò non solo riferendosi alla differenza tra l’essere e l’apparire, quanto invece sul riflesso di un’ingannevole interpretazione che finisce per considerare, come si è detto, inevitabile e di conseguenza accettabile il ricorso a pratiche illecite.
Haiden Heimer ha parlato, di una “zona grigia” ove il giudizio rimane incerto, tra lecito e illecito, e la linea di separazione tende a confondersi.
L’affermazione, attribuita a Winston Churchill secondo cui la corruzione “serve” come benefico olio lubrificante finirebbe così per ricevere, attraverso il principio del “fine giustifica i mezzi” formulato dal Machiavelli, una cinica sua legittimazione.
Ad ulteriore dimostrazione del pericolo di un generalizzato giudizio di permissività, significativo appare il riferimento alla lingua tedesca che per definire la “tangente”, termine che nella terminologia italiana indica il prezzo o parte di esso, dell’illecita prestazione del pubblico ufficiale, fa ricorso al vocabolo “schmirgeld” che, letteralmente significa “olio che lubrifica”. La corruzione, dunque, esprime tutto il suo negativo valore sociale e giuridico proprio perché mira a camuffarsi, quale moderna sirena, sotto forme di piena legittimità. Tale apparenza, peraltro, non può mai autorizzare un differente e scriminante giudizio di confusione nei confronti del corrotto e del corruttore. Ciò proprio perché il fatto criminoso presuppone concretamente un accordo tra l’offerta del corruttore e l’accettazione del corrotto.
I risultati raggiunti poi non possono mai aspirare ad un positivo giudizio indipendentemente dalla loro apparenza, proprio perché scaturenti da un illecito accordo.
Tali considerazioni, che richiamano anche le antichissime origini delle pratiche corruttive, sollecitano il Legislatore ad un impegno sempre vigile, tempestivo ed efficace negli interventi.
Carente, per contro, è apparsa, sin dalle prime battute, la Legge 190 del 6/11/2012 con l’attribuzione alla costituita Autorità Anticorruzione di compiti piuttosto generici e limitati rispetto alle competenze assegnate, tanto da rendere necessario un successivo intervento del Legislatore mediante il D.L. 24/6/145, n. 90 conv. nella Legge 11/8/14, n. 114
Con tale norma si son voluti attribuire con maggior chiarezza compiti e funzioni dell’Autorità Nazionale, migliorandone i poteri di intervento, richiamando anche gli obblighi di trasparenza per le Pubbliche Amministrazioni. Si è capito, dunque, che un’attività di contrasto alla corruzione non può e non deve prendere le mosse da stereotipi ed immobili principi, quanto piuttosto da una dinamica, costante analisi, anche di carattere preventivo, di avvenimenti e comportamenti.
Dinanzi a tale esplicitazione di indirizzi e competenze, le ventilate iniziative, dirette ad attribuire alle pronunce dell’Autorità Anticorruzione valore solo consultivo e non decisorio, sembrano essere di poco momento.
Invero è il contenuto di ciò che si afferma ad attribuire autorevolezza e conseguente responsabilità, non invece, il carattere vincolante delle valutazioni.
Anche il riconoscimento delle competenze altrui non soltanto servirà a valorizzare l’assunzione di responsabilità delle rispettive Autorità, ma anche ad evitare purtroppo frequenti e deleteri conflitti di attribuzione tra i diversi soggetti pubblici. Le critiche espresse in tema di lotta alla corruzione riguardano anche il settore dei pubblici appalti.
Si è detto già, infatti, che il loro espletamento costituisce uno dei canali privilegiati, cui fanno frequente ricorso le organizzazioni criminali per raggiungere i propri scopi.
La strumentalizzazione delle varie fasi di svolgimento dei pubblici appalti consente alle associazioni criminose di conseguire illeciti guadagni attraverso una diffusa attività di corruzione.
Il Dlgs 18/4/2016, n. 50 definito Codice degli Appalti pubblici, ha inteso regolamentare compiutamente tutto il settore interessato, prevedendo minuziosamente ogni singolo adempimento, nell’espletamento delle procedure previste.
È encomiabile l’intenzione ma, come spesso accade, ai buoni propositi non corrispondono sempre i risultati sperati.
In primo luogo, infatti, l’architettura del provvedimento in esame sembra non tener conto di un’esigenza sociale e politica che, in maniera sempre più evidente, sta emergendo.
Provvedimenti costruiti sulla base di iter burocratici minuziosamente articolati, caratterizzati dal conferimento e da attribuzioni di responsabilità riferibili anche a piccoli segmenti di attività, spesso tra loro intersecanti, comportano un appesantimento delle procedure che, seppur dirette nelle intenzioni a facilitare controlli e trasparenze delle attività previste, finiscono fatalmente per creare frequenti occasioni di stasi delle procedure.
Se infatti, con un banale esempio, il percorso di un treno prevede numerose fermate in altrettante stazioni, ciò risponderà all’esigenza di meglio distribuire il flusso dei viaggiatori, ma certamente renderà meno veloce il convoglio; di certo non garantirà, per ciò solo, una maggiore sicurezza del viaggio. L’odierna esigenza che scaturisce da valutazioni critiche di carattere sociale, economico e commerciale per il nostro paese, sollecitano, invece, un’accelerazione dei processi produttivi, che sappia coniugare lo snellimento della burocrazia, con la trasparenza delle Istituzioni. Una burocrazia, eccessivamente articolata, non serve a garantire limpidezza di adempimenti né celerità di espletamenti.
L’eccessivo ricorso all’attribuzione di responsabilità determina facilmente, da parte dei soggetti coinvolti, un rallentamento delle condotte di ufficio, dettate più che dallo scrupolo di approfondire ogni disamina, invece del timore di incorrere in incidenti di percorso, giungendo alla finale considerazione secondo la quale operando di meno si corrono meno rischi.
È pur vero che il Legislatore ha cercato con la legge del 30/12/2018, n. 145, ed in attesa di una complessiva revisione del Codice dei pubblici contratti, di migliorare alcune procedure prevedendone l’affidamento diretto, ma, ancora una volta, il rimedio adottato non appare risolutivo.
Invero il sostanziale rilievo che viene mosso alla corposa normativa, ancora in vigore, si riferisce alla molteplicità di situazioni ed adempimenti ipotizzati e non ai controlli e verifiche per contro sempre necessari. Il superamento di alcune procedure autorizzative finisce per essere addirittura contraddittorio, perché per prima cosa opera solo un differimento ad un momento successivo del controllo sulle autorizzazioni, non conseguendo così in concreto nessuna accelerazione; per secondo, perché se l’affidamento diretto non comporta una minore efficacia dei controlli, non si vede la ragione per la quale lo snellimento procedurale non possa estendersi globalmente a tutte le procedure.
Le esposte perplessità richiamano ancora una volta la necessità di una regolamentazione di un settore vasto e complesso, la cui soluzione non può essere affrontata, e tanto meno risolta, con leggi non sempre di facile comprensione e di difficile gestione, in ragione delle numerose confluenze di altre normative di origine interna, comunitaria o di diversa collocazione giuridica.
In tale spirito di miglior inquadramento del settore, sembra che la previsione dell’anticipazione con la domanda di partecipazione all’appalto dell’indicazione di eventuali subappaltanti, potrebbe offrire la possibilità di migliori controlli sugli aspiranti ed una velocizzazione delle procedure. Altra innovazione potrebbe essere introdotta con le abolizioni di clausole collegate a variazioni ed aggravamenti dei costi di aggiudicazione, avendo riguardo all’alea che normalmente si considera esistente nella stipula di nuovi contratti.
Un’ulteriore dimostrazione dell’interesse del Legislatore sull’intera materia è costituita dal recentissimo intervento portato con la Legge 9/1/2019, secondo comma, n. 3 con la quale si è provveduto ad integrare e modificare numerose norme penali e di procedura.
Rilevante, nel testo richiamato, la modifica dell’art. 159, secondo comma, c.p. in tema di prescrizione.
Essa ha immediatamente sollevato dibattiti vivacissimi tra gli addetti ai lavori.
Indubbiamente l’istituto della funzione ha la sua rilevanza nelle indagini di carattere penale che scaturiscono da illeciti commessi mediante fatti corruttivi nel campo dei pubblici appalti. Il Legislatore, intervenendo con il prolungamento dei termini di decadenza dell’esercizio dell’azione penale, ha inteso confermare la sua particolare attenzione alla lotta nei confronti di gravi reati.
La condivisione dell’orientamento espresso dal Legislatore non esime tuttavia dall’esprimere brevi e conclusive considerazioni sulla corretta corrispondenza della norma con fondamentali principi giuridici sulla corretta efficacia della sua applicazione.
Per primo occorre intendersi su che cosa giuridicamente sia la prescrizione. Essa scaturisce dalla coniugazione di due fondamentali principi riconosciuti allo Stato: quello di punire, fondato sul potere autoritativo e quello di rinunciare ad ogni espressione, sia pur contraria, dello stesso diritto.
Tale precisazione dovrebbe servire a sgomberare il campo dalle contraddittorie ed opposte conclusioni che si vogliono trarre da tale rinuncia. Viene infatti ritenuta da una parte un’implicita affermazione di condanna carente solo dell’irrogazione della pena; dall’altra una altrettanto chiara affermazione di non colpevolezza equivalente ad una piena assoluzione. L’istituto invece non consente speculazioni interpretative di comodo, costituendo solo una mera astensione da parte dello Stato da un suo pronunciamento in relazione al trascorrere del tempo prefissato.
I problemi scaturenti dalla modifica della norma non si limitano al riproporsi di vecchie questioni, ma ne propongono di nuovi e non, di certo, trascurabili.
La sospensione della prescrizione voluta dall’art. 1 lett. e della L. 9/1/19, n. 3 sostitutiva del secondo comma dell’art. 159 c.p. mostra tutta la sua carenza nel momento in cui l’allungamento dei termini, nei modi con i quali è formulata, mostra di essere non tanto una maggiore affermazione del diritto di fruire dello Stato, quanto piuttosto un riconoscimento della ineluttabilità di un processo lungo e farraginoso, in contrasto con il principio costituzionale della sua ragionevole durata.
L’amara conclusione che da tutto il discorso sembra potersi trarre è che, al di là della riforma o introduzione di nuove leggi, occorrerebbe promuovere la riscoperta dei fondamentali principi di una società fondata su generali e solidi comportamenti di onestà di intenti con il riconoscimento e rispetto dei diritti altrui, prima che dei propri.
Lontani da tali principi, tutte le norme, approntate dal Legislatore ed indipendentemente dai suoi sforzi sono destinate a fallire il loro scopo, rivolgendosi ad una platea che, prima di prestare osservanza e rispetto delle leggi, ricerca il modo di violarle o eluderle.